Profeta è, anzitutto, colui, colei che parla e che, parlando, non si limita a trasmettere un convincimento proprio; il profeta, infatti, è eco di una voce più lontana, pozzo che attinge ad una sorgente più profonda che lo alimenta e lo sollecita. Profeta è colui, colei che ha la coerenza e l’onestà di calarsi in questo pozzo che ciascuno di noi possiede nell’intimo, portandone in superficie l’acqua.
Molte e molti di noi, sovente, lasciano che quest’acqua ristagni, perdendo freschezza e trasparenza: il profeta la raccoglie dentro il secchio della sua voce e la riversa su quanti lo incrociano lungo il cammino, siano essi disposti ad abbeverarsene oppure, come assai più spesso accade, insofferenti di fronte a questa doccia fredda.
Michea ha fatto proprio questo: ha attinto in profondità, si è diretto alla fonte che sentiva zampillare nell’intimo ed è riemerso con secchi ricolmi d’acqua che un impeto irrefrenabile di passione lo ha costretto a svuotare, senza troppe remore, senza troppi riguardi.
Ma non abbiamo ancora risposto del tutto alla nostra domanda di partenza: chi era Michea? Per comprendere un po’ meglio la sua personalità, dobbiamo anzitutto gettare uno sguardo sul tempo e sul luogo in cui quest’uomo acuto ed irriverente ha vissuto ed agito.
Il luogo, anzitutto: Michea, a quanto ci dice proprio all’inizio il libro a lui attribuito dalla tradizione (Michea 1:1), è originario di Morèset, un piccolo villaggio di campagna della Giudea, a sud-est di Gerusalemme. Le sue, dunque, sono origini modeste, contadine: il che costituisce uno dei tratti predominanti della profezia sorta in seno al popolo di Israele, la quale possiede assai sovente origini rurali. Sono state le campagne, con lo sfruttamento a cui i suoi abitanti erano sottoposti, a generare le voci più scomode e sferzanti che attraversano le Scritture ebraico-cristiane: pastori, contadini, braccianti, raccoglitori, costituiscono l’ufficio di reclutamento del Dio biblico, che sceglie in mezzo a loro le labbra incaricate di pronunciare la Sua Parola di giustizia.
Non labbra di dotti, dunque, ma di semplici, che conoscono bene quell’ingiustizia che occulta il volto di Dio e ne contrasta il progetto di dignità e umanità. Questi uomini estranei alla doppiezza e al sotterfugio sono gli emissari di un Dio del diritto, che non tollera l’oppressione e la menzogna di quanti interpretano un ruolo di responsabilità come esercizio indiscriminato del potere.
A quel tempo le classi dirigenti di Gerusalemme erano scese a patti con la potenza assira che aveva assoggettato la Samaria: quando all’invasore non è possibile opporre resistenza, meglio farselo amico e godere dei benefici che può assicurare a chi lo appoggia.
I governanti della Giudea avevano optato per questa soluzione: a farne le spese, come sempre accade, erano gli strati più poveri della società, in particolare gli abitanti delle campagne. Di qui, dunque, si levano le voci che denunciano l’ingiustizia e la corruzione degli uomini politici che risiedono comodamente nella capitale. Già: perché l’annuncio profetico nasce, in primo luogo, come
denuncia; ed è questo che, normalmente, lasciamo nell’ombra nella predicazione ecclesiastica che, smettendo di denunciare, cessa anche di annunciare. Un annuncio che non prenda le mosse dalla denuncia di una situazione di ingiustizia conclamata, infatti, è un annuncio annacquato, svilito, depotenziato. Un annuncio che risulta non scomodare nessuno e che, in questo modo, finisce per fare il gioco di quanti preferiscono che la predicazione sia soltanto un esercizio moraleggiante, una carezza sulle coscienze, che serva ad acquietarle piuttosto che a scuoterle. Chi governa, del resto, è di norma poco incline alle critiche.
Chi, poi, governando accumula ricchezze e consolida privilegi, non accetta in alcun modo il fatto di sentirselo rinfacciare: così si circonda di un consenso falso perché plebiscitario, di incensatori, di adulatori a libretto paga. E quanti provano a levare la voce, se proprio non si riesce a dissuaderli, vengono tolti di mezzo, facendo poi scomparire scrupolosamente ogni traccia di prova che possa ricondurre al mandante.
Io non sono che l’ultimo arrivato in questa terra generosa che mi scorre nelle vene e che ho riscoperto a trent’anni, dopo avervi trascorso le mie estati di bambino e di adolescente. Come e forse ancor più di altre terre, questa Sicilia non puoi capirla se non vivendola e, per quel che mi riguarda, la amo senza ancora comprenderla. Per questo ho un certo riserbo a nominare quelle stragi che, nel cuore di questa Sicilia così mia e così estranea, hanno aperto uno squarcio, una ferita non ancora rimarginatasi. Sono trascorsi vent’anni da quando due profeti laici, come laico era anche Michea, hanno perso la vita per mano dei violenti a causa di un diritto che hanno costantemente difeso, tutelato, praticato. Qualcuno di voi ha persino lavorato a loro fianco, condividendo con loro sogni, lotte, delusioni, speranze. In me i loro nomi riecheggiano come una memoria lontana, impigliata nelle maglie ancora fragili dell’adolescenza: non ero che un sedicenne cresciuto all’ombra degli stabilimenti della Fiat di Mirafiori e l’omicidio efferato dei due giudici e delle loro scorte nella lontana Palermo suonava al cuore come un evento irreale e incompreso.
Oggi sono un uomo che, studiando, incontrando, domandando, ha cercato di gettare una luce, sia pur flebile, su quei fatti raccapriccianti: ho letto interviste, ascoltato dolori, atteso, al fianco di tante e tanti, di conoscere il nome dei mandanti. Ma ancora oggi, a vent’anni di distanza, Falcone e Borsellino sono profeti uccisi da mano ignota, omicidi che non hanno un colpevole. I due giudici, così come Michea, avevano denunciato una politica che edificava Palermo con mani lorde di sangue e che pervertiva il diritto, quella pietra angolare su cui i due magistrati avevano costruito tutta la loro vita, umana prima ancora che professionale. Entrambi avevano incominciato a scoperchiare l’intricata trama dei rapporti tra Stato e mafia, denunciandone le sospette collusioni, le zone d’intersezione, le infiltrazioni. Oggi siamo a conoscenza del fatto che tra Stato e mafia ebbe luogo una trattativa dai contorni tutt’altro che nitidi, i cui artefici continuano ad essere coperti anziché denunciati.
Questa terra, la sua gente, ancora attende di conoscere in maniera esplicita i nomi di coloro che l’hanno intrisa del sangue dei giusti, i volti di quanti hanno lasciato che i corleonesi agissero indisturbati, al punto da poter mettere a segno due attentati nella stessa città in meno di due mesi senza essere intercettati. Sono quanti erano responsabili del governo del nostro Paese, come ci ricorda Michea, coloro dai quali dobbiamo continuare ad esigere quei chiarimenti che, ostinatamente, essi si rifiutano ancora oggi di fornire, di fornirci. Continueremo ad attenderli e a pretenderli: come Michea non taceremo e seguiteremo a fare della denuncia il cuore del nostro annuncio.
Domenica 3 Giugno 2012 – Pastore
Alessandro Esposito -
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