Ne era consapevole anche l'apostolo Paolo, il quale, a esempio, dopo aver a lungo meditato sul rapporto tra Dio e Israele, la cui vocazione come popolo eletto non è stata revocata neppure dopo il rifiuto della maggioranza di credere in Gesù come il Messia, esclama: «Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e non investigabili le sue vie! Infatti, chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato il suo consigliere?» (Romani 11, 33-34). Dico questo non per cavarmela a buon mercato davanti a un problema che non riesco a risolvere, ma solo per ricordare i limiti della nostra conoscenza. Questi limiti però non ci esonerano dall'affrontare tutti i problemi che si pongono alla fede, compresi quelli che si presentano come insolubili, come sembra essere, almeno a prima vista, quello sollevato dal nostro lettore. Ci è stata trasmessa una bella sentenza di Guglielmo il Taciturno (1533-1584) che dice più o meno così: «Non c'è bisogno di sperare per intraprendere, né di riuscire per perseverare». Lungo la stessa linea di pensiero possiamo dire: «Vale sempre la pena affrontare un problema, anche se non si riesce a risolverlo». Ecco alcuni aspetti della questione.
1. Una prima osservazione può essere questa. Il nostro lettore cita due volte la parola di Paolo: «Non dipende né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia» (Romani 9, 16). Paolo però in quei versetti, non sta parlando della fede – così almeno mi sembra – bensì dell'elezione. È l'elezione, non la fede, che non dipende né da chi vuole né da chi corre, cioè non dipende dal volere e dall'iniziativa umana, ma unicamente dal beneplacito di Dio. Il quale infatti ha scelto il popolo d'Israele e non un altro popolo più potente o più virtuoso; ha scelto Giacobbe e non Esaù, benché Giacobbe fosse più lestofante di Esaù; ha scelto Davide e nessuno dei suoi fratelli che erano più alti. Più maturi e più forti di lui; e Gesù ha scelto i Dodici, che non erano certo la crema di quella generazione, non erano i primi della classe, erano persone molto ordinarie, persino troppo, gente «di poca fede», come ci ricorda il nostro lettore, di così «poca fede» che alla fine uno lo ha tradito, un altro lo ha rinnegato, tutti lo hanno abbandonato, e Gesù è morto non tra due discepoli, ma tra due «ladroni» (forse due partigiani palestinesi). Gesù l'aveva detto: «Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi» (Giovanni 15, 16): effettivamente i Dodici non hanno scelto Gesù, hanno scelto la fuga. Dunque è chiaro che l'elezione non dipende né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio soltanto che, in questo campo, non ascolta certo i nostri consigli. Addirittura l'apostolo Paolo sostiene che Dio «ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i savi, e ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti» (I Corinzi 1, 27). Cioè Dio sceglie il contrario di quello che sceglieremmo noi. Sicuramente l'elezione non dipende da noi. Ma la fede? Dipende, almeno in parte, da noi, oppure no? E se, come sembra, non dipende da noi, perché Gesù se la prende con chi non ce l'ha, come se averla o non averla dipendesse da lui? Questo è il problema irrisolto che il nostro lettore ci propone.
2. Alla domanda se la fede dipende da noi, dobbiamo rispondere di no. Così risponde il nostro lettore, e ha ragione. Ogni credente può – penso – ripetere con l'apostolo Paolo: «Io so in chi ho creduto» (II Timoteo 1, 12), ma è più difficile dire: «Io so perché ho creduto». Certo, ciascuno può raccontare la sua storia spirituale e dire attraverso quali tappe, o quale illuminazione, o quali esperienze, egli è giunto alla fede e, se è cristiano, alla fede cristiana, per la quale Gesù è diventato il Signore e Salvatore della sua vita. Ma perché tutto questo sia capitato proprio a lui, perché il suo cuore si sia aperto alla parola di Dio e all'azione segreta dello Spirito – questo resta inspiegabile. Chi crede, sa in chi crede, ma non sa perché crede, proprio perché sa che credere non dipende da lui. Dipende così poco da lui che accade talvolta ciò che dice l'apostolo Paolo citando il profeta Isaia che dichiara da parte del Signore: «Sono stato cercato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me» (Romani 10, 20). La fede qui non è neppure il frutto di una ricerca e di un'attesa più o meno lunga, è un dono imprevisto e improvviso, una vera e propria sorpresa che desta stupore e meraviglia in chi ne è oggetto. Come accade nella parabola di Gesù sul tesoro nascosto, trovato – si direbbe – per caso da un contadino in un campo non suo che egli zappava e dove non immaginava che ci fosse un tesoro e quindi non lo cercava (Matteo 13, 44).
3. La fede dunque non dipende da noi, ma c'è indubbiamente una responsabilità umana riguardo sia alla fede sia all'incredulità. [A] La responsabilità umana nei confronti della fede si esercita in due direzioni. [a] La prima è quella indicata dal nostro lettore: la fede è, sì, dono di Dio, ma questo dono lo si può desiderare, cercare, chiedere, secondo la promessa di Gesù: «Chiedete, e vi sarà dato; cercate e troverete». Certo, non è sempre così: succede che uno cerca e non trova, chiede e non ottiene. La Bibbia conosce anche questa esperienza drammatica: «Andranno in cerca dell'Eterno, ma non lo troveranno; egli si è ritirato da loro» (Osea 5, 6). Ma conosce anche l'esperienza opposta: «Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il vostro cuore; ed io mi lascerò trovare da voi, dice l'Eterno» (Geremia 29, 13-14). Questo vuol dire che nel rapporto con Dio non c'è nulla di automatico, nulla di scontato, nulla di dovuto, ma anche nulla di bloccato, o di precluso, o di impossibile. Tutto è aperto, e questo accresce la nostra responsabilità. [b] In secondo luogo la responsabilità nei confronti della fede si esercita sul terreno della decisione. Nessuno di noi è un automa, nessuno è un robot. Dietro ogni nostra scelta, c'è una decisione. Siamo quello che decidiamo di essere. Benché sia vero che siamo anche sempre condizionati, in misura variabile, da tanti fattori, è però altrettanto vero che in fin dei conti siamo noi che decidiamo se – a esempio – ascoltare o non ascoltare una parola, se rispondere «sì» o «no» a un invito. La fede è, sì, un dono di Dio, ma è anche un dono accettato, accolto e fatto proprio. Lutero definisce la fede «appropriarsi di Cristo» (apprehendere Christum), e in questa appropriazione c'è un' innegabile componente di scelta e decisione umana. La nostra responsabilità nel credere è certo relativa e non assoluta, nel senso che credere non dipende da noi, però c'è, e conta. [B] Come c'è una responsabilità relativa nel credere, così c'è nel non credere. La fede – lo ripeto – non dipende da noi, ma dipende da noi prendere sul serio la questione di Dio, e non liquidarla sbrigativamente come irrilevante, o insignificante, o addirittura assurda. Ci sono buone ragioni per non credere in Dio, ma ci sono anche pessime ragioni per adagiarsi nell'incredulità, e molti scelgono le pessime più che le buone. C'è un modo superficiale, o anche beffardo, di ridicolizzare il discorso di fede come un cumulo di favole e ingenue dabbenaggini, come se solo l'incredulità fosse sensata e fosse lei l'unica scelta in telligente. Nessuno si può dare la fede, d'accordo, però c'è modo e modo di non credere, come c'è modo e modo di credere. Anche questo va detto: non c'è solo l'alternativa: credere o non credere; c'è anche la questione di come si crede o non si crede, cioè la questione della qualità della fede e dell'incredulità. C'è infatti una fede bigotta, ottusa, superstiziosa, fanatica, intollerante, che non ha nulla a che fare con il Dio di Gesù (anche se si considera cristiana), ma solo con qualche idolo religioso o feticcio umano. E c'è un'incredulità pensosa, che si interroga e si lascia interrogare, e che, pur non dicendo «sì» a Dio, non si accontenta di dire semplicemente «no», ed è forse più vicina a Dio di tanti «credenti» che non hanno ancora capito bene che cosa sia la fede.
4. Concludo rispondendo al nostro lettore. Credere o non credere non dipendono da noi, ma noi siamo relativamente responsabili del nostro credere o non credere, e penso che i rimproveri di Gesù alle città incredule e ai discepoli «di poca fede» si riferiscano non al fatto di credere o non credere, ma al cattivo uso che possiamo fare della nostra responsabilità – relativa, ma reale – anche in questo campo.
Paolo Ricca -da 'Riforma' n. 24 del 15 giugno2012 -
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