Il nostro brano ci racconta di un Gesù che, da buon ebreo, si reca in giorno di sabato presso l’assemblea che si raduna nel villaggio: ma non vi si reca per ascoltare; vi si dirige allo scopo di insegnare, ovverosia di commentare la Torah (che vuol dire proprio
insegnamento) ed i profeti.
Il nostro passo non ci dice di preciso quale sia il brano delle Scritture che Gesù commenta, né riporta quali siano le parole pronunciate da Gesù: tutto ciò riguardo a cui ci informa è la reazione dei presenti. Il testo ci dice che costoro
si meravigliano: inizialmente, dunque, manifestano stupore, incredulità. A che cosa è dovuta la loro sorpresa? A ciò che ascoltano e che noi non conosciamo. A questo proposito si domandano: «Da dove gli provengono queste cose (che dice)?». Gesù, come detto, era di ritorno a Nazaret: molti, probabilmente, non avevano idea di quale fosse di preciso il luogo da cui era reduce, ma sospettano che da questa terra sconosciuta egli avesse appreso quanto adesso andava insegnando loro. L’essersi recati altrove, spesso, è esperienza che ingenera il sospetto e l’invidia in quanti non si sono mai avventurati oltre i confini del già dato, di quanto si dà per acquisito e, per ciò stesso, si considera assodato, fuori discussione. Sovente chi fa ritorno da un viaggio viene immediatamente accusato di saccenza: «Ma tu guarda un po’ questo presuntuoso» - avranno pensato i presenti - « fa ritorno dal suo giro in terre pagane e ora viene ad ammaestrarci: ma chi si crederà mai?».
Ma non è soltanto ciò che Gesù dice a destare perplessità e sospetto: qualcosa, infatti, era giunto alle orecchie dei nazareni anche in merito a quanto egli aveva fatto. Non soltanto non convince del tutto la sua sapienza, ma lasciano increduli anche le voci che circolano riguardo alle
possibilità generate attraverso le sue mani. Per il popolo ebraico, infatti, molto attento alla sostanza e poco incline al fascino dell’astrazione, la vera sapienza è questione di tatto, di esperienza concreta.
Conoscere, in lingua ebraica,
si dice
yadah, che viene da
yad, «mano»: ciò che si sa è ciò che si fa, perché la sapienza è opera delle mani, non esercizio della lingua o acrobazia della mente. Noi, figli di una cultura che delle mani si dimentica, salvo nel caso in cui celebra il miracolo, traduciamo questa espressione bellissima che parla di «possibilità generate dalle sue mani» con «opere potenti fatte per mano sua» (così la
Nuova Riveduta) o, in alternativa, con «i prodigi compiuti dalle sue mani», con questa eterna, inguaribile mania di rimarcare l’eccezionalità dell’operato di Gesù. Ma se eccezionalità c’è, questa risiede in ciò che l’agire di Gesù genera nella vita di chi lo incontra lungo il proprio cammino: nuove possibilità, l’opportunità di liberarsi da una condizione alla quale ci si sentiva irrimediabilmente inchiodati. Gesù è reduce dall’incontro, in terra pagana, con una donna vittima dell’esclusione e della sofferenza che ne scaturisce, provocate dal suo inarrestabile flusso di sangue, che da simbolo di vita diviene, nella sua storia, anticamera della morte: da un tocco desiderato ed osato, da un contatto sospirato e azzardato, sbocceranno per lei nuova speranza e nuova vita. Questo è ciò che sta a cuore a Gesù: essere generatore di opportunità insperate, tramite della restituzione alla pienezza della vita, alla sua dignità negata. Questo è ciò che generano le sue mani che non temono il contatto e che per prime gli insegnano a varcare i confini, a superare le barriere, ad abbattere i muri. Gesù tocca e si lascia toccare: e con questo contatto ridona, senza vuote parole, relazione e, per ciò stesso, emozione, fremito, vita. Le mani, sapientemente usate, sono generatrici di opportunità, dispensatrici di carezze, sostegno nell’abbattimento, stretta nello sconforto. Gesù le protende, le apre: e aprendole dischiude possibilità e orizzonti.
Del resto, ed i presenti lo ricordano, Gesù è falegname: la sua sapienza, ancor più di quella di altri, è racchiusa nelle mani e dalle mani germoglia e prende forma. Ma, a giudizio dei suoi compaesani, il fatto che questo carpentiere si alzi in mezzo all’assemblea e incominci a commentare le Scritture sfiora il ridicolo: insomma, è un artigiano. Se si tratta di costruire porte, o tavoli, o sedie, sa il fatto suo, non c’è dubbio: ma interpretare la Torah… Questo è compito dei dottori! Lui che ne sa: a malapena è capace di leggere! Insomma: teologi non ci si improvvisa.
Sì, è senz’altro vero: teologi non ci si improvvisa. Ma bisognerebbe anche capire come lo si diventa. Secondo noi, e secondo quanti erano lì ad ascoltare Gesù, studiando; secondo Gesù, vivendo ed incontrando. La migliore esegesi, a giudizio di Gesù, è quella che l’esperienza ci consente di svolgere: anche perché, a ben guardare, l’esperienza è ciò di cui le Scritture narrano, così come ciò da cui traggono nutrimento e forma.
Alle scritture ci si educa, anzitutto, accogliendo la vita: con i suoi incontri, i suoi insegnamenti, i suoi imprevisti, le sue insanabili contraddizioni.
A Dio ci si accosta vivendo: non esiste un accesso diverso, che coinvolga soltanto la nostra mente e non ci richieda di metterci in gioco come persone, nella nostra interezza. Nell’antico Israele non esistevano teologi di professione: le pagine bibliche sono intessute di trame contadine, rurali; nascono dall’esperienza quotidiana di pastori, pescatori, agricoltori. Quella ebraica è una sapienza che nasce, come noi, dalla terra, da quella
adamah di cui anche noi, gli
adam, siamo fatti: una sapienza che si serve di mani che lavorano, plasmano, creano. Una sapienza callosa, paziente, faticosa, figlia delle mani e della loro concretezza.
Questo, oggi come ieri, non cessa di scandalizzare: una sapienza impolverata, sporca di terra, appare poco nobile, persino, in maniera del tutto assurda, poco credibile. L’uomo comune, con il sudore delle sue mani, è considerato inesperto delle cose di Dio che, si sa, sono cose celesti. Gesù riporta Dio sulla terra, in mezzo ai semplici, che di parole ne pronunciano poche, perché conoscono il gesto, preciso, essenziale, del lavoro manuale. Da quel gesto esatto, paziente, nasce la sapienza autentica, quella capace di costruire ma anche, se necessario, di ricominciare da capo un lavoro malfatto. Le parole, invece, rimangono: una volta uscite non è possibile tornare a mettervi mano, modificarne la forma o gli effetti. Lasciano un segno, restano incise, scuotono, risollevano o feriscono. Hanno anche loro bisogno di quell’essenzialità che hanno smarrito e che è racchiusa nel gesto di chi la sapienza la trasmette creando. Gesù aveva nella parola il gesto preciso dell’artigiano, che il teologo ignora: a meno che non torni, anche lui, a raccontare Dio con quella sapienza antica e profonda che ci viene dalle mani.
Domenica 24 Giugno 2012 – Pastore
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com