Il fatto che la questione del «cristianesimo apolide», cioè dei cosiddetti «cristiani senza chiesa », trattata a grandi linee nel «dialogo» intitolato «Cristiani senza chiesa: è possibile? », apparso su Riforma del 4 maggio 2012, venga con questa lettera riproposta alla nostra attenzione, dimostra, come giustamente osserva il nostro lettore, che essa è «più sentita di quanto si immagini», nel senso che il numero dei cristiani «apolidi», cioè senza patria o casa spirituale (su questa terra), è assai maggiore di quello che comunemente si pensa.
Che poi questo accada non in paesi lontani nei quali i cristiani sono una sparuta minoranza che vive e testimonia in condizioni di diaspora estrema, ma accada in Italia, paese che vanta un’antica tradizione cristiana (cattolica romana), che pullula di chiese e dove si celebrano ogni giorno (e non solo ogni domenica) decine e forse centinaia di migliaia di culti (messe), non può non stupire e anche suscitare un sentimento di amarezza. È davvero molto triste dover constatare un fenomeno di questo genere. Perché i
cristiani «apolidi» non sono agnostici, o scettici, o dubbiosi, o tiepidi, o anche semplicemente pigri; no. Sono cristiani non meno credenti degli altri, che come gli altri hanno a cuore il nome e la causa di Dio nel nostro mondo, ma che si sentono poco, o male, o per nulla rappresentati dalla chiesa alla quale appartengono, e perciò se ne allontanano, di solito silenziosamente: dietro l’abbandono esteriore c’è ovviamente un esodo interiore che lo precede. Che cosa si può dire al riguardo? Come mai il cristianesimo «apolide» è (relativamente) così diffuso? Ecco una possibile spiegazione, seguita da un paio di altre osservazioni.
(1) La possibile spiegazione, fin troppo ovvia, è che in generale, nella nostra vecchia Europa, la vita delle chiese, globalmente considerata, non è – tranne eccezioni – esaltante né molto invitante, tanto più quando è vista dal di fuori. I culti, che ne sono l’espressione comunitaria principale, sono di solito ripetitivi e non particolarmente attraenti. Anche la predicazione che, nella comprensione evangelica del culto, è il momento più atteso e più carico di promesse, non di rado delude. O perché non fornisce una vera e viva spiegazione del testo biblico, che diventa allora un semplice pretesto per divagazioni ed esternazioni pastorali di varia natura, oppure perché la spiegazione del testo resta avulsa dalla «vita di tutti i giorni» (come si dice), e soprattutto dalle domande (che sono spesso interrogativi della fede) e dai bisogni (che sono spesso bisogni vitali, materiali e spirituali), presenti, ma inespressi, nella comunità. I cristiani «apolidi» sono per lo più dei cristiani delusi, che vorrebbero una chiesa diversa da quella o quelle che essi conoscono e che non corrispondono al loro ideale di chiesa. Ora, noi tutti sappiamo che la chiesa ideale non esiste, e chi la cerca non la troverà mai. Questo però non significa che le chiese che esistono siano le uniche e le migliori possibili. Ogni chiesa può sempre essere migliorata, riformata, rinnovata e persino risuscitata. Calvino, nel suo commento al profeta Michea, dice: «Bisogna tenere a mente questo, che non c’è vita della chiesa senza risurrezione, anzi senza molte risurrezioni, se così si può dire». Questo significa che nessuna chiesa deve accontentarsi di quello che è, e in presenza dell’esodo di molti suoi membri dovrebbe quanto meno chiedersi se non potrebbe essere meglio di quello che è. Ritengo che ogni chiesa debba prendere molto sul serio questo esodo e questo particolare tipo di «esodati», e soprattutto non li deve abbandonare, al contrario deve andarli a cercare (questo anzi dovrebbe essere oggi uno dei compiti primari dei pastori), chiedere loro perché la chiesa li ha delusi al punto da indurli ad abbandonarla, e così prendere coscienza delle sue responsabilità in questo campo. D’altra parte, anche i cristiani «apolidi» possono chiedersi se, oltre che della chiesa, non sono delusi almeno un po’ anche di loro stessi, come cristiani, se cioè l’abbandono della chiesa non sia stata per loro la via larga, quella più facile da imboccare, e se essi abbiano davvero fatto tutto il possibile per evitarla. L’esodo dalle chiese è certo anzitutto responsabilità delle chiese stesse, ma forse un po’ lo è anche di chi, per buone o meno buone ragioni, dalla chiesa se ne va.
(2) Considerando il fenomeno molto moderno del «cristianesimo apolide», cioè dei «cristiani senza chiesa», non si può ignorare il ruolo della divisione della chiesa. A prima vista si potrebbe pensare che la pluralità delle chiese oggi esistenti costituisca un argine al fenomeno dell’esodo dalle chiese, nel senso che un cristiano può abbandonare una chiesa particolare per un’altra, senza però uscire dall’unica chiesa di Cristo: egli semplicemente sceglie un altro contesto ecclesiale in cui vivere la sua fede e la sua vita cristiana. Questo passaggio da una chiesa a un’altra è sempre accaduto in passato e continua ad accadere anche oggi, e in questo senso la pluralità delle chiese serve sicuramente a rendere meno massiccio l’esodo dei cristiani dalle chiese. Resta però il fatto che il numero di coloro che passano da una chiesa a un’altra è, nel nostro tempo, nettamente inferiore al numero di coloro che abbandonano ogni tipo di chiesa. Non solo, ma neppure là dove esistono (a esempio in una grande città) molte chiese diverse tra loro (come sono, a esempio, una chiesa cattolica, una ortodossa, una anglicana, una valdese, una battista, una assemblea dei Fratelli, una pentecostale, o altro ancora), non necessariamente il cristiano «apolide» troverà la chiesa che cerca, quella «giusta», come la chiama il nostro lettore. Ma anche se la trovasse, non necessariamente cesserebbe di essere «apolide», questa volta per delle ragioni molto pratiche come quelle indicate dal nostro lettore.
(3) Qui entriamo nel vivo della problematica che egli ci propone: si può essere cristiani «apolidi», cioè senza chiesa, non per scelta deliberata, e non solo perché la chiesa di appartenenza ci ha eventualmente deluso e perciò l’abbiamo abbandonata, e neppure solo perché, pur avendola cercata, non abbiano trovato quella «giusta»; ma perché – molto più banalmente – la chiesa «giusta» che possiamo aver trovato è difficile da raggiungere perché è distante dalla nostra abitazione, o perché gli orari dei culti non si armonizzano con i nostri impegni di famiglia o di lavoro, o per altre ragioni
di questa natura molto pratica.
A questo punto le domande del nostro lettore sono due. La prima è: non potendo partecipare al culto nella chiesa che consideriamo «giusta», «si può sopperire a questa lacuna partecipando al culto domenicale di un’altra chiesa (di cui magari non si condivide granché)?». Rispondo di sì, purché in questa chiesa diversa dalla nostra si predichi la Parola di Dio, e non qualcos’altro, perché di null’altro la fede ha tanto bisogno come della Parola di Dio predicata. «Predicare la Parola di Dio» è certo una frase generica, ma ci sono due criteri che ci aiutano a individuarla: il primo è che sia fondata sulla Bibbia e da essa sostanziata; il secondo è che ruoti intorno a Cristo. La seconda domanda è: «Che ruolo hanno, in questa prospettiva, gli scambi di idee via Internet con altri fratelli in fede?». Risponderei così: possono svolgere un ruolo importante sia per tenere viva e alimentare la riflessione della fede attraverso il dialogo e il confronto, sia per rompere l’isolamento in cui fatalmente vengono a trovarsi i cristiani «apolidi», che sono per definizione (e per scelta) cristiani nella diaspora. Dev’essere però chiaro che nessuna chiesa telematica e virtuale (se così la si può chiamare), per quanto importante possa essere ed effettivamente sia soprattutto per chi vive in diaspora, può diventare la chiesa reale. Detto questo, mi permetto di dare al nostro lettore (e a quanti si trovano in una situazione simile alla sua) un triplice consiglio.
[a] Si iscriva comunque a una chiesa (più o meno «giusta» che sia) come membro effettivo, anche se impossibilitato a frequentarla, e si mantenga in contatto epistolare con essa, quanto meno con il pastore. La chiesa infatti è un corpo (come noi!), non solo un’anima. È importante che la nostra appartenenza a Cristo e alla sua chiesa si manifesti anche «corporalmente », attraverso l’appartenenza a un «corpo» storico concreto, per quanto imperfetto.
I cristiani, oltre che «membra di Cristo» (I Corinzi 6, 15), sono anche «membra gli uni degli altri» (Romani 12, 5).
[b] Resti unito alla chiesa di Cristo sparsa per il mondo attraverso la lettura quotidiana della Bibbia (utilizzando, a esempio, il lezionario Un giorno, una parola), la preghiera, la testimonianza personale della fede e le opere dell’amore. [c] Cerchi di creare a casa sua, con amici e conoscenti, una piccola «chiesa domestica» che fu, come risulta dal Nuovo Testamento, la prima forma di esistenza della chiesa cristiana nascente. Chissà che non sia proprio quella la chiesa «giusta » che un cristiano «apolide» ha cercato a lungo, forse senza trovarla mai.
Paolo Ricca - 'Riforma' del 13 luglio 2012 -
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