Noi, invece, del toccare e del toccarsi non sappiamo quasi più nulla, oppressi da secoli di censura di questa esperienza profondamente umana e rivelatrice: ci hanno ripetuto fino allo sfinimento che il corpo è la fonte di ogni perdizione e che l’anima, questo famigerato fantasma, è ciò che conta davvero. Ma anche l’anima, il respiro che ci rende vivi, in verità, non è che un’emanazione del corpo, unico compagno inseparabile di ogni istante della nostra esistenza. Oggi, a farcelo riscoprire, è il gesto coraggioso e disperato di una donna che decide di raggiungere Gesù con la punta delle dita, di sfiorarlo con una carezza che le sue mani hanno voluto dispensargli. Inizialmente, narra il nostro racconto, Gesù viene bloccato da un uomo che gli si getta ai piedi e lo implora di seguirlo fino a casa sua, dove sua figlia è ormai in fin di vita. È a casa di quell’uomo che Gesù si sta dirigendo quando, d’improvviso, una sensazione lo spinge a fermarsi lungo il tragitto. Gesù, infatti, possiede una caratteristica del tutto speciale: è un uomo capace di lasciarsi interrompere; dono raro, che denota sensibilità. Sta recandosi altrove, Gesù, con uno scopo chiaro: eppure la vaga percezione di un gesto ricevuto è sufficiente a scuoterlo e ad arrestare i suoi passi. Ciò che ai più sarebbe passato inosservato Gesù lo avverte in modo indefinito eppure chiaro, al punto che si ferma in mezzo alla folla che lo circonda. Nonostante il tentativo dei suoi discepoli di dissuaderlo dall’individuare chi, in mezzo a una tale bolgia, potesse averlo sfiorato, Gesù cerca con insistenza il volto di chi aveva accennato quella carezza.
A dispensarla, noi lettori lo sappiamo, è stata una donna: a muovere la sua mano è stata una sofferenza prolungata, il grido muto del suo corpo esausto. Come spesso avviene, poi, al dolore del corpo segue quello dell’anima, anch’essa prostrata, sfinita.
Alla radice di entrambe le sofferenze, manco a dirlo, sta l’intransigenza delle norme sociali, sostenuta, come di consueto, dal rigore degli uomini religiosi e dalla loro inguaribile paura di tutto ciò che è femminile.
Secondo questi inflessibili guardiani di una fede rigida e inumana ogni donna soggetta a perdite di sangue non era da considerarsi una persona sofferente, ma un essere impuro: come tale, pertanto, andava isolata e relegata ai margini; ogni contatto con lei era fonte di contaminazione.
Ecco perché la ferita del corpo diventava in lei anche dolore dell’anima: entrambi infatti, corpo e anima, erano condannati ad una solitudine straziante e assoluta, ad una prigionia che non consentiva, né desiderava alcuna guarigione. Se non sentiamo anche noi, insieme con la donna, questo soffocamento, questa reclusione forzata, questa violenza inflitta e subita, non possiamo comprendere il senso profondo del nostro racconto.
In questo sforzo di immedesimazione non ci aiutano di certo le traduzioni delle nostre bibbie, che risentono di quell’astrazione che, col tempo, ci ha portati a trasformare la teologia in un pensiero arido, estraneo alla vita.
Tornare a fare della teologia una riflessione vicina alla vita delle donne e degli uomini, significa lasciarsi commuovere dalle vicende che i testi biblici raccontano e fare della traduzione il luogo concreto dell’educazione delle nostre sensibilità. Spesso, nelle nostre bibbie, troviamo espresso così il desiderio della donna che si spinge sino a sfiorare la veste di Gesù: «Se toccherò almeno la sua veste, sarò
salvata». Viene da domandarsi: salvata da che cosa? Le nostre menti, condizionate da secoli di lettura tradizionale dei testi, sono immediatamente ricondotte allo schema secondo cui la salvezza consiste nella sottrazione ad una condizione di peccato.
Il che ci porta a guardare alla sofferenza di questa donna come conseguenza del suo essere «peccatrice». La stessa teologia protestante «classica», con la sua insistenza sulla condizione umana come condizione di peccato, c’è più di ostacolo che di aiuto nella comprensione di questo racconto e di questo incontro. La donna, difatti, è vista qui non nel suo peccato, ma nella sua umanità; non nella sua presunta «impurità», ma nella situazione di sofferenza e di emarginazione in cui alcuni uomini e la loro inflessibile religiosità l’hanno a lungo confinata. Ecco perché, in verità, il suo è un desiderio non di
salvezza, in senso astratto, ma di
liberazione fisica, concreta da una condizione di esclusione che non ha nulla di naturale e che è, piuttosto, il frutto di una mancanza di sensibilità.
Ed è proprio questa durezza del cuore, che genera l’emarginazione, a rappresentare l’unico autentico
peccato di tutta la vicenda.
Se teniamo presente questo sfondo psicologico, emotivo, tutta la vicenda, che consiste nella nudità di un gesto osato e disperato, ci apparirà più chiara. La donna che protende verso Gesù le sue dita delicate e coraggiose per sfiorare appena la sua veste, cerca nelle mani e nel tocco l’uscita dalla sua condizione di prigioniera; ecco perché pensa: «Se riuscirò a toccarla sarò
liberata». Riusciamo, per un istante, a sentire il suo dolore? Riusciamo anche noi a lasciarci sfiorare da queste sue dita che gridano il diritto ad un contatto negato per dodici anni? Proviamo a immaginarlo, se mai è possibile: dodici anni senza il calore di un corpo, senza il conforto di una carezza: come doveva sentirsi questa donna? Come dipingiamo nel cuore e nei sensi i sentimenti che la abitavano e la tormentavano?
Ecco perché Gesù avverte nell’intimo la vibrazione di quella carezza che, pure, non aveva sfiorato se non la sua veste: Gesù nota l’impercettibile perché indovina il dolore che sta dietro al gesto della donna e le muove la mano. Gesù si ferma perché ricerca un contatto diverso, capace di arrivare ad una profondità diversa e di generare relazione e, perciò stesso, vita.
Si guarda intorno e cerca con gli occhi l’autrice di quel gesto tenero e disperato. La donna, nel frattempo, sente che qualcosa è avvenuto: il suo corpo, quel corpo che lei ha imparato ad ascoltare, la avvisa immediatamente del cambiamento avvenuto. Dice infatti il nostro racconto, con un’espressione toccante: «E fu chiaro
al suo corpo che era guarita dal tormento». Non è la mente della donna che la avvisa della trasformazione accaduta e nemmeno il suo cuore: è il corpo a parlarle, a dirle che il tormento che la prostrava l’ha finalmente abbandonata.
Alla gioia profonda e incontenibile, però, segue un timore improvviso, inatteso: è legato all’uomo che aveva osato sfiorare e che mai aveva pensato che avrebbe potuto accorgersi di quella carezza data ad un lembo della sua veste. Eppure quel galileo, chissà come, l’aveva percepita: e lei sapeva che non aveva alcun senso sottrarsi, fuggire. Timorosa, forse, del fatto che qualcuno tra la folla l’avesse vista compiere il gesto; oppure intimamente certa che gli occhi di Gesù l’avrebbero comunque scovata, la donna si getta ai suoi piedi in preda alla paura e, prosegue il nostro racconto, «gli dice tutta la verità». È questo il momento in cui un altro cambiamento, più sottile e silenzioso, ha inizio nella vita della donna, nel suo corpo finalmente restituito alla libertà. Il timore era con ogni probabilità legato alla condanna: lei, infatti, impura, aveva toccato la veste di quell’uomo, finendo così per contaminarlo.
Ora la folla la metterà in disparte, un’ultima volta in questa sua esistenza vissuta ai margini, e la lapiderà. Tutto per aver osato una carezza, per aver cercato quel contatto che, soltanto, poteva liberarla dalla lunga prigionia sofferta. Eppure quello sconosciuto galileo, quel maestro itinerante non la giudica e, men che meno, condanna lei o quel che ha fatto: al contrario, le regala parole che la risollevano. Le dice: «Figlia». Lei, che mai da uno sconosciuto era stata chiamata così, torna ad alzare lo sguardo, incredula, sbigottita. Poi quell’uomo prosegue: «La tua fede ti ha liberata».
La tua fede: non io, ma la fiducia che hai avuto in me e, prima ancora, in te stessa, nella tua capacità di osare un gesto che l’ottusità degli uomini pii e religiosi condanna. Gesù pronuncia queste parole alla presenza di Giairo che, dice il nostro racconto, era uno dei capi della sinagoga: questo perché fosse chiaro anche a lui che tutto ciò che conta, agli occhi di Gesù e del Dio d’Israele e Dio nostro, è una fede dal volto umano, attenta al dolore dell’altra e capace di rallegrarsi di fronte alla libertà riacquistata dopo una lunga e ingiusta privazione avvenuta nel nome di Dio. Adesso che ci siamo guardati, ora che hai potuto dire anche a te stessa tutta la verità, senza doverla nascondere o giustificare: adesso sì, dice Gesù alla donna, puoi considerati guarita dal tormento che ti affliggeva. E non sono stato io a liberarti: le catene le hanno spezzate la tua fiducia e il tuo coraggio.
Il laccio che ti soffocava, in verità, lo hanno sciolto la tua audacia e l’amore nato dal gesto delicato e sincero delle tue mani. Ed è in queste tue mani, prima ancora che in me, che non devi smettere mai di credere. Amen
Domenica 5 Agosto 2012 – Pastore
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com