Se questa fosse soltanto la situazione presente, tutto sommato potremmo ritenerci quasi sollevati. Duole invece constatare che gli appelli all’annullamento di ogni spirito di contestazione siano contenuti all’interno dello stesso canone biblico che sta a fondamento della nostra fede.
Questa constatazione dovrebbe portarci a riflettere con più attenzione e profondità sul senso e sui rischi di una lettura fondamentalista dei testi biblici, i quali, inevitabilmente, riflettono tensioni e contrasti tra interpretazioni talvolta profondamente diverse e persino contrastanti della fede. Prova ne sono le parole che l’apostolo Paolo rivolge alla comunità di Roma e che abbiamo ascoltate quest’oggi. Si tratta di un chiaro invito alla sottomissione all’autorità costituita che, giova ricordarlo, ai tempi in cui l’apostolo scrive era rappresentata da un impero violento e oppressore.
È evidente, o quantomeno dovrebbe esserlo, che le affermazioni di Paolo andrebbero messe in contesto: con ogni probabilità, infatti, l’apostolo intende proteggere la comunità di Roma da eventuali rappresaglie militari, suggerendo una condotta mite ed obbediente che la metta al riparo da ogni sospetta ribellione all’ordine costituito. Paolo, infatti, sta scrivendo una lettera ad una giovane comunità, non un trattato di etica politica: i suoi sono suggerimenti improntati al buon senso, non principi universali da adottare in ogni situazione e che si suppone debbano caratterizzare il comportamento del «buon cristiano». Proprio quest’ultimo, invece, è stato il modo in cui, spesso, le chiese hanno interpretato le parole dell’apostolo, vedendovi un appello incondizionato all’obbedienza che ogni cristiano deve all’autorità di turno, qualunque essa sia.
Questa lettura, lo sappiamo, ha prodotto una storia di connivenza tra potere religioso e potere politico che ha coinvolto in maniera diretta anche la Riforma, della quale dovremmo svolgere una lettura più critica e meno idealizzata.
Ci vengono incontro, in questo sforzo di onestà storica ed intellettuale, le parole che il romanzo «
Q» mette in bocca a un cosiddetto «dissidente», esponente di quel movimento anabattista che la Riforma tradizionale, alla stessa stregua del cattolicesimo, non ha esitato a zittire e, persino, ad eliminare fisicamente:
«A vent’anni credevo che Lutero ci avesse regalato una speranza. Non ci ho messo molto a capire che l’aveva subito rivenduta ai potenti (…) Gli stessi che hanno voluto riformare la fede e la chiesa hanno riformato anche il vecchio potere, gli hanno fornito una nuova maschera»
[Tratto da: Luther Blisset,
Q, Einaudi, 2000, p. 356]
Parole amare, non c’è dubbio: e ancor più amare perché vere. Quel che risulta ancor più disarmante, però, è constatare come l’abuso di potere possa ricevere un fondamento biblico: fondamento che la teologia riformata, come è noto, ricerca ed individua spesso nella tradizione cosiddetta «paolina». Fornite infatti all’apostolo Paolo tutte le attenuanti possibili, rimane il fatto che quanto egli afferma nel passo che abbiamo ascoltato è quantomeno discutibile. Non solo, infatti, lasciano perplessi le sue affermazioni circa la cieca obbedienza dovuta all’autorità; come credenti rammarica e indigna ancor più la giustificazione teologica che l’apostolo fornisce. Dice infatti Paolo: «Non vi è autorità se non da Dio (…) Così, chi si oppone all’autorità, si oppone a quanto disposto da Dio».
Si tratta di un’affermazione perentoria, che non lascia spazio a tesi alternative, nel tipico stile di Paolo. Ora, è fuor di dubbio che di affermazioni simili non vi è traccia nei vangeli: al contrario, per quanto siano controversi i motivi della condanna a morte di Gesù, l’unico elemento certo è che essa fu comminata dal potere politico che vide nel profeta di Nazareth un potenziale sovversivo.
Gesù non ha mai esortato all’obbedienza alle autorità costituite: a questo proposito non ha fatto calcoli improntati alla prudenza o alla convenienza. Non a caso, Gesù promise ai suoi persecuzione come inevitabile risposta alla proclamazione di un evangelo che rivendica il diritto degli ultimi (Mc 10:30). Nella predicazione di Gesù non c’è traccia di compromesso: ed è questa intransigenza a rendere la fedeltà del discepolato un cammino tutt’altro che agevole. Paolo scrive in un periodo e in un contesto diversi: ha quale obiettivo la sopravvivenza di una comunità più che la fedeltà ad un messaggio. Tanto più che il messaggio di cui l’apostolo si fa testimone è diverso: non si tratta più della proclamazione di un Regno di giustizia, ma dell’annuncio di un Cristo risorto ed innalzato. Anche in questo caso, non di rado Paolo esorta ad assumere nella fede un atteggiamento del tutto simile a quello che egli suggerisce in ambito politico, fatto di sottomissione più che di consapevolezza, di ossequio più che di sequela. Difatti, l’impianto della predicazione di Paolo, nel suo insieme, è autoritario: si sviluppa per contrasto, offre poco spazio al confronto con sensibilità diverse, ricorre spesso allo schema nefasto «noi»/«altri», che acuisce le contrapposizioni e ostacola il dialogo.
La teologia paolina riflette sovente le rigidità e le convinzioni dell’apostolo assai più che la volontà di Dio: per cui, ritengo, sarebbe auspicabile prenderne coscienza e mettere in chiaro che criticare una determinata affermazione paolina non significa, come vogliono alcuni, rigettare la Parola di Dio. Quest’ultima, infatti, come ci insegnano le tanto disprezzate – perché temute – teologie della liberazione, è Parola che si riflette nel mondo e nella storia prima ancora che nei testi: per cui tradirla, in verità, significa agire in maniera tale da giustificare l’oppressore e la sua logica. Questo, mi pare, è anche il rischio delle parole di Paolo che ho provato a meditare insieme con voi, prendendomi, anche, la libertà di discuterle e di controbattervi. La prospettiva dell’apostolo ed il suo richiamo all’obbedienza all’autorità costituita, continuano a non convincermi; e ancor meno mi convince l’argomentazione secondo cui questa autorità, qualunque essa sia, è voluta ed istituita da Dio. Ho motivo di ritenere che queste affermazioni si trovino in contrasto con un evangelo che, non di rado, individua nell’obbedienza all’autorità il più subdolo dei peccati, quello attraverso cui alcuni si auto-assolvono dalla complicità nel delitto barricandosi dietro la scusa di aver soltanto eseguito un ordine. L’evangelo che Gesù ci invita a proclamare, al contrario, ci richiama costantemente alla nostra
responsabilità nella costruzione del Regno; un Regno che incomincia qui ed oggi, attraverso di noi e, non di rado, grazie alla nostra capacità di ribellarci all’ordine costituito. Un Regno per costruire il quale è necessario «obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5:29).
Domenica 19 Agosto 2012 – Pastore
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com