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26/09/2012 12:21:19

Salvati in speranza

A Taranto, nell’Italia meridionale, si trova un gigantesco impianto siderurgico, importantissimo per l’economia della regione e del Paese intero. Migliaia di abitanti della città si sono ammalati di cancro, e numerosi sono morti, a causa dell’avvelenamento dell’aria  determinato dalle emissioni della fonderia. Per tale ragione, in Agosto è stata decisa dal tribunale la chiusura della  fabbrica, e la questione è ancora al centro del dibattito. Dunque: nel pieno della più tremenda crisi economica del  dopoguerra, un’intera città rischia in pratica la disoccupazione. Accettare il cancro, per potersi guadagnare il pane?  Salvarsi la vita, a prezzo della disoccupazione? Ma quale vita può, in tal modo, essere salvata? Taranto: una parabola  della vanità della creazione. Ma noi siamo la chiesa di Gesù Cristo e abbiamo, dice Paolo, le «primizie dello Spirito»:  osiamo parlare di libertà per il futuro. Qui riceviamo, tuttavia, una piccola sorpresa: secondo l’apostolo, queste  primizie dello Spirito non consistono in qualche sicurezza ideologico-religiosa, in qualche consiglio altisonante e pieno  di supponenza, da parte di una chiesa che sa sempre tutto, nei confronti del povero mondo scristianizzato.  Esse consistono, invece, in un gemito e in un’attesa: noi gemiamo e attendiamo la redenzione del nostro corpo. Tale  gemito e tale attesa, prosegue Paolo, si chiamano, nel linguaggio cristiano, «speranza», costituiscono la massima  benedizione, rendono beati. Quale beatitudine pericolosa, tuttavia, e a caro prezzo! Noi, come gli altri, vediamo  Taranto e gemiamo nell’attesa della libertà dei figli di Dio. Viviamo in questa tensione e ne soffriamo, non nonostante lo Spirito, bensì nella sua forza. La chiesa che vive delle primizie dello Spirito sa di essere solidale con la vanità della  creazione. Questa solidarietà nella debolezza viene descritta dal testo in termini drastici: coloro che ricevono le  primizie dello Spirito come fonte di speranza, sono qui e ora così disorientati, da non essere nemmeno in grado di  svolgere quello che sembra essere il mestiere per eccellenza delle chiese, pregare. Anche in questo esse devono  affidarsi allo Spirito, che intercede per loro e per la creazione. Paolo o, per meglio dire, Dio, afferma che a questa  chiesa, a noi, è affidata una parola che, di fronte alla vanità della creazione, risulta, letteralmente, incredibile: tutte le  cose cooperano al bene di quelli che amano Dio. Tutte? Anche il cancro e la disoccupazione di Taranto? Anche la  disperazione economica oggi della Grecia, domani della Spagna, dopodomani dell’Italia? Proprio coloro che ricevono le primizie dello Spirito sanno bene che il gemito disorientato di fronte a queste domande non contraddice la speranza della fede, bensì ne fa parte. È il gemito di coloro che sperano ciò che ancora non possono vedere; che non sanno  pregare come si conviene; è il gemito della fede, consapevole di dover rinunciare a slogan a buon mercato; è il gemito  della speranza cristiana, a caro prezzo. La libertà dell’evangelo, riscoperta dalla Ri forma, è libertà per questa speranza e per questo futuro. Ci siamo riuniti per testimoniarcela reciprocamente. In effetti, lo ammetto, nel nostro  ordine del giorno non si trovano né Taranto né le innumerevoli tragedie di questo tempo. Parleremo di chie sa e di  riconoscimento reciproco, di ministero, sinodalità, Scrittura e dottrina. Tipici temi ecclesiastici, si potrebbe ben dire. L’osservazione, naturalmente, non è sbagliata , e anche la sua allusione critica deve essere presa sul serio. L a piatta  costatazione che alcune chiese si riuniscono per discutere argomenti chiesastici, mi apparirebbe tuttavia incompleta e, così almeno spero, anche inadeguata. In primo luogo,non vogliamo accontentarci di parlare di speranza e futuro;  vogliamo, anche e s oprattutto, come chiese cristiane (sarei anzi tentato di dire: come chie sa cristiana) pregare   insieme p er essi. Pregare, come coloro che pregare non sanno: il che però significa, appunto, pregare da cristiani.  Inoltre, noi parliamo delle nostre cose «ecclesia stiche» al cospetto di Taranto e della vanità della creazione.  Cerchiamo di farlo onestamente, cioè senza illusioni circa la nostra capacità di essere profetici. Onestà e modestia, in  effetti, hanno a che fare con la speranza che non può ancora vedere. Nel nostro parlare, tutt avia, siamo guidati da  una parola che non è nostra proprietà e che non intendiamo spacciare come tale, ma che ci è promessa e indirizzata. Il nostro parlare ecclesiastico su cose ecclesiastiche intende essere condotto da una speranza: che questa parola,  questo dono che ci è promesso e indirizzato, p ossa essere ricevuta da noi anche come compito. Per noi e per la  vanità della creazione, nel cuore della quale la fe de attende la gloriosa libertà dei figli di Dio. Amen

Fulvio Ferrario - docente di Teologia presso la Facoltà Valdese di Roma - da 'Riforma'  del 28 sett.2012


(Predicazione di apertura dell’Assemblea della «Comunione di chiese protestanti in Europa » (Ccpe) tenuta al Convitto della Calza a Porta Romana , a Firenze, il 20 settembre 2012. La traduzione dal tedesco è dell’autore)