La portantina sostenuta dai quattro energumeni traballava sulla polverosa carrettiera che attraversava la campagna desolata della Giudea.
In quei giorni si viaggiava relativamente sicuri: nella regione si era stabilito un certo equilibrio e il sodalizio con i romani stava dando frutti concreti. Le ribellioni sembravano per il momento sedate, soprattutto dopo la rinnovata dimostrazione della crudeltà di Erode che aveva fatto decapitare quel “folle” del Battista che aveva avuto la sfrontatezza di smascherarlo.
Inorridii al ricordo del macabro dono. Per niente al mondo avrei voluto trovarmi un’altra volta ad assistere ad una scena così raccapricciante: la testa di Giovanni su un vassoio!
Regale dono per la figlia di Erodiade, che aveva ballato magistralmente alla festa di compleanno di Erode.
Che disgusto!
Non ho mai sopportato la violenza e la vista del sangue. Purtroppo, il rango e la posizione sociale di Cuza, mio marito, procuratore di Erode, mi costringevano spesso a trovarmi, mio malgrado, in situazioni davvero insostenibili per me.
Quei cruenti ricordi, supportati dal caldo afoso della mattinata estiva, mi procurarono una nuova sudorazione e mi sentii venir meno. Cercai di scostare la tendina per favorire un ricambio d’aria. Non si percepiva un alito di vento.
La campagna appariva più brulla e desolata del solito. Il sole, ormai ben alto in cielo, mi colpì agli occhi, quasi accecandomi, tanto che i monti e i sassi si fecero di un bianco evanescente.
Il viaggio verso la mia casa paterna procedeva ormai da alcune ore e si era fatto davvero pesante. I portatori, stanchi e accaldati, non vedevano l’ora di raggiungere l’oasi più prossima per la sosta stabilita.
Anch’io, ormai, mi sentivo stanca, ma soprattutto vuota. Vuota e desolata come la sensazione di aridità che sprigionava quel luogo desertico e che riusciva a penetrare fino nell’intimo più recondito di me stessa.
Provavo un’angoscia opprimente!
Avevo tutto: casa, famiglia, posizione sociale, servitù, ma mi sentivo mancante di qualcosa che non riuscivo a definire.
Volevo dimostrare a tutti di essere libera, emancipata, soddisfatta, mentre, in quel preciso momento della mia esistenza, mi ritrovavo, come non mai, oppressa e legata.
Legata da quella società, corrotta e ambigua, che si sgretolava in banchetti e nefandezze senza considerare le ragioni dell’altro.
Anzi andava avanti, calpestando tutto e tutti, pur di conseguire posizioni sempre di più alto prestigio, lasciandosi dietro fiumi di sangue, talvolta anche fraterno. Così era la corte di Erode del mio tempo, cinica e spietata.
Ed io, Giovanna di Cuza, malgrado facessi parte di questa corte, mi sentivo una perfetta estranea, quasi un’aliena.
La mia posizione, purtroppo, non mi permetteva di svicolare tutte le occasioni e m’induceva a usare tutta la mia ipocrisia per fare buon viso a pessimo gioco.
Ogni tanto, poi, intraprendevo dei viaggi, come questo, che mi riportavano alla mia casa d’origine, dove riuscivo a rinfrancarmi un po’ tra i miei affetti più cari: le persone e i luoghi della mia fanciullezza!
Intanto, voci concitate mi riportarono indietro dai miei pensieri. Una marea di gente, giunta chissà da dove, costrinse la mia portantina a rallentare. Le guardie cercarono di aprirsi un varco fra la folla ed io, affacciatami, chiesi a qualcuno cosa fosse quello strepitio.
Nessuno si degnò di rispondermi.
Tutti seguivano la medesima direzione, mentre qualcuno a gran voce incitava:
<< Gesù, c’è Gesù ai piedi del monte, insegna e guarisce; su, avanti da questa parte! >>
Ordinai agli schiavi di fermarsi e scesi. I miei piedi assorbirono istantaneamente il calore delle pietre roventi. Mi feci riparo con un velo e andai, senza riflettere, dietro la folla, bramosa di sentire cosa avesse da dire l’uomo che riusciva a interessare una così numerosa turba di persone.
Giunta al luogo della riunione, rimasi stupita nell’osservare la scena che mi si presentava davanti. Tutti avevano trovato un posto a sedere su una pietra o sui propri mantelli e si erano fatti silenziosi. L’area si era rarefatta come rinfrescata da una leggera brezza, ma non soffiava un alito di vento, anzi tutto sembrava immobile, fermo, attento, disponibile.
Ogni essere vivente, presente in quel luogo, comunicava la stessa sensazione di attenzione, come di……… aspettativa.
Le nuvole in cielo sembravano essersi fermate, gli uccelli poggiati sui rari alberi e sui cespugli rendevano la scenografia irreale e suggestiva.
Il nazareno iniziò a parlare con chiarezza, con vigore, con autorità.
Raccontò di pace, di gioia, di letizia, di amore, di speranza, del regno di Dio che si era avvicinato agli uomini. Parole nuove, mai pronunziate, mai immaginate. Parole che penetravano fino alle viscere, che sconvolgevano, che emozionavano e commuovevano fino alle lacrime.
<< Venite a me voi tutti aggravati ed io alleggerirò i vostri pesi! Venite, voi sconfortati e delusi ed io vi conforterò! Fascerò le vostre ferite, sanerò le vostre piaghe! Voi che siete assetati di giustizia, venite a me, io vi sazierò! >>
Come poteva Gesù soddisfare tutti, tutte quelle migliaia di persone, come poteva sanarli? Render loro giustizia, come avrebbe potuto? Sfamarli, poi, come avrebbe fatto?
Di quale giustizia parlava quest’uomo se Erode assassinava chiunque ostacolasse il suo cammino e i Romani falciavano anche dove non avevano seminato?
Quale giustizia avrebbe potuto mai promettere a questo popolo martoriato e dominato da sempre? Di quale pane avrebbe potuto saziarli? Dove trovare denaro sufficiente per comprare loro del pane e poi in mezzo al deserto? Quest’uomo stava dicendo un mucchio di fandonie e tutti sembravano credergli ed attendere speranzosi. Forse era più facile che scendesse manna dal cielo che pane terreno!
Ero delusa ed arrabbiata; questo Gesù fantasticava e cercava di imbrogliare quella povera gente illusa e credulona.
Ma, non erano fantasticherie quelle crucce che venivano depositate ai suoi piedi, né tutti quei letticelli che venivano messi in disparte, né tantomeno quei ciechi che gridavano di vederci chiaro e tutti quelli che affermavano di essere stati sanati dalle loro malattie al solo tocco delle sue mani.
Né era fantasia quel pane appena sfornato, che odorava di buono e che veniva distribuito a tutti, insieme a quei pescetti fritti che sembravano appena saltati dalle padelle.
Gustai il pane e il pesce solo per capacitarmi che non si trattasse di una burla.
La bontà di quel pane entrò nelle mie viscere riconciliandomi col mondo intero. Mi sentii in armonia con quel luogo che tante volte avevo detestato; mi sentii in sintonia con quel popolo rozzo, ignorante e povero che, dall’alto della mia nobiltà, avevo sempre considerato appestato e miserabile.
In un istante amai tutto e tutti; ma mi innamorai soprattutto di quell’uomo Gesù che mi attraeva in un modo particolare e singolare. Mi sentii in empatia con lui, con ciò che diceva e che faceva. Lo ammirai per quella carica che trasmetteva, quella particolare energia che emanava raggiungendo i presenti, guarendoli e confortandoli.
Invece di proseguire il mio viaggio, ritornai al palazzo ormai confortata e rinvigorita. Raccontai a Cuza la mia esperienza con l’uomo di Galilea e del come mi sentivo rinnovata e innamorata. Innamorata anche di lui, di mio marito. Gli dissi con enfasi che lo ritenevo bello ed affascinante, ma che non dovesse prendersela a male se da quel giorno avrei avuto altre aspirazioni ed altri impegni.
Cuza mi prese sicuramente per pazza, ma era tanto innamorato che mi ritenne sincera. Lasciò che io facessi liberamente la mia scelta, anzi fece di più: mi appoggiò e mi diede il suo sostegno economico e morale.
Dal giorno in cui incontrai Gesù, vissi la mia nuova vita in modo intenso, pieno, passionale.
Il suo amore appagante, l’amore di Gesù dico, mi travolse e lo sparsi agli altri senza lesinarlo.
La sua predicazione divenne la mia, la sua giustizia, la pratica della mia vita.
La passione, la condanna e la sua crocefissione mi atterrarono. Inutili si erano rivelati i miei sforzi per evitargli la morte. La sua era stata una morte predestinata, voluta dal Padre Celeste. Chi avrebbe potuto opporsi?
La sua Resurrezione ci colse tutti di sorpresa, ma non ci trovò impreparati. Il suo amore non ci aveva abbandonati, la sua speranza era ancora viva in noi e desiderava portare frutti.
Allargai le mie braccia, come aveva fatto Lui sulla croce per abbracciare l’umanità intera in un sodalizio fraterno e lottai per vincere la fame, il dolore, l’ingiustizia.
Non fui mai sola in questo combattimento perché il Vivente e il Risorto fu sempre al mio fianco in questa nuova meravigliosa avventura che fu la mia esistenza terrena con Lui.
21 ottobre 2012 – Pina Giacalone Teresi