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13/11/2012 08:24:15

La meditazione del pastore: 'Questione di tatto'

Quando un testo presenta delle ambiguità, la tentazione ricorrente delle nostre teologie è quella di scioglierle, di proporre una lettura che ne renda ragione provando a spiegarle. È per questo motivo che, scorrendo la storia dell’interpretazione di questo brano in ambito cristiano, capita di imbattersi in tentativi di chiarimento che mostrano tutta l’incapacità della teologia razionale di reggere l’oscillazione e l’apertura di senso propria del linguaggio mitico, il quale, una volta risolto nella fredda e lucida esattezza della spiegazione, perde tutto il suo fascino, che risiede proprio nel rinvio ad una ulteriorità di senso che non può né vuole essere esaurita. Accade con il racconto biblico quel che accade con l’amore: pretendere di afferrarlo nel concetto significa, da un lato, illudersi e, dall’altro, svuotarlo di significato, privarlo di fecondità. Quella concettuale è una logica della sterilità, incapace di ascolto e di meraviglia: è un metodo che si può applicare alla scienza, ma non a quell’universo complesso e contraddittorio che chiamiamo umanità, per accostare il quale è necessario ricorrere al linguaggio evocativo ed immaginativo del mito. Non per il fatto di sottrarsi alle ferree regole della logica il mito è però meno vero del concetto: è espressione di un linguaggio diverso, che descrive ma non definisce, allude ma non esplicita, rimanda ma non circoscrive. È, per l’appunto, linguaggio dell’ulteriorità: per  ciò stesso, l’unico adatto ad accostare il mistero di Dio così come quello dell’uomo.   Ecco perché pretendere di spiegare il mito ricorrendo alle categorie proprie del pensiero razionale significa rinunciare a comprenderlo e si traduce in un’operazione vana, destinata a naufragare. Per comprendere il mito, infatti, bisogna lasciarlo parlare e lasciarsene interrogare e provocare: diversamente, si resta inevitabilmente al di qua del messaggio che esso intende rivelarci; e si scade, inesorabilmente, in spiegazioni che, oltre a rivelarsi incapaci di cogliere un senso, sfiorano il ridicolo. In queste proposte di esplicitazione si è prodigata l’interpretazione della teologia cristiana tradizionale che, di volta in volta, ha visto in questo plurale un dialogo di Dio con i suoi angeli (sebbene il testo non ne abbia mai fatto menzione, fin qui) o, ipotesi ancor più ingegnosa e pretestuosa, le parole che il Padre rivolge alle altre due persone della trinità, e pazienza se il testo che si sta cercando di interpretare appartiene alla tradizione ebraica, del tutto estranea al concetto trinitario. Come sovente accade all’impostazione concettuale e dottrinale, attraverso queste letture non si fa altro che rinvenire nel testo le prove indirette di quanto già si è acquisito per altre vie e una volta per tutte: motivo per cui si cessa di prestare realmente ascolto al testo e alle sue sollecitazioni. I passi biblici, in verità, ci richiedono sì di ricorrere alla fantasia: ma non a quella codificata dal sapere teologico tradizionale, che rimanda a quanto è già noto e stabilito. L’immaginazione a cui siamo chiamati è, piuttosto, quella creativa, che va posta al servizio della vita e non della dottrina: perché questo è l’unico modo in cui il sapere può acquisire sapore. Ciò che l’ascolto del brano ha suggerito alla mia fantasia e alla mia vita è questo: mi piace pensare che qui l’autore del racconto faccia esprimere a Dio un desiderio ed un proposito che, in realtà, sono rivolti a noi. «Facciamo l’essere umano» è l’invito che Dio ci inoltra costantemente e che ancora attende di essere realizzato: perché essere umani è un compito e non, come sovente riteniamo, una condizione. Queste parole, dunque, mi piace immaginare che siano rivolte a noi, perché possiamo, insieme con Dio, costruire vite, percorsi e relazioni dal volto autenticamente umano.   C’è un altro aspetto che, al contrario di quello che abbiamo provato ad approfondire sino ad ora, si sottrae all’evidenza. Fino al momento in cui il testo di Genesi narra della creazione di noi esseri umani, Dio crea parlando: ciò che Egli dice diviene realtà, fatto concreto, nel momento stesso in cui affiora alle sue labbra. Non con noi: quando si tratta dell’essere umano, di colui, di colei che riflette fedelmente l’immagine di un Dio dal volto e dal cuore profondamente simili al nostro, Dio sospende la parola e incomincia a plasmare, in silenzio. Noi veniamo al mondo per un gesto delle sue mani, espressione di una cura diversa e, forse, persino di un’ineffabilità, di un’impossibilità di tradurre l’atto d’amore in parola, foss’anche la Parola creatrice di Dio. Quando si tratta di noi, Dio annuncia un proposito che, per realizzarsi, ha bisogno di farsi silenzio e gesto: per cui, muto, il Dio artigiano mette mano al nostro mistero e lo intesse.   Di questo Dio che plasma e accarezza, la nostra teologia classica, incentrata sulla parola e sovente imprigionata nel concetto, ha smarrito le tracce: eppure il primo gesto d’amore, quello attraverso cui la vita ci viene donata, è figlio del contatto, non del pronunciamento. Dimenticando il Dio del tatto abbiamo dimenticato anche i nostri corpi, quelli che un’eccessiva concentrazione sul pensiero ha confinato nell’oblio, quelli che una teologia spirituale ha lungamente trascurato e persino svilito. Questo ci ha portato alla conclusione, del tutto inesatta, secondo cui abbiamo un corpo, quando, in  realtà, siamo corpo: perché è con il corpo, di cui lo stesso cuore è parte integrante e pulsante, che sentiamo, vibriamo e, persino, comprendiamo. Lui, nessun altro, è la cassa di risonanza delle nostre emozioni, ciò attraverso cui, soltanto, ci è possibile fare esperienza, non appena della vita, ma persino di Dio. Se non siamo capaci di avvertire Dio, la sua presenza impercettibile e la sua assenza lancinante, la nostra fede non può che risultare arida e le nostre teologie non possono che rivelarsi incapaci di farci vibrare e sussultare. Diventiamo animali da tempio, che razzolano entro il perimetro ristretto di un recinto sfamandosi di dottrine dispensate da quanti ci desiderano docili e obbedienti sino alla remissività. Dio, invece, ci vuole simili a Sé, profondamente umani perché sensibili a quel contatto che ci ha generati.   A Matanzas, a un centinaio di chilometri da La Habana, a Cuba, c’è un seminario evangelico di teologia: tra gli altri, fino a qualche anno fa, lo frequentava Wanda, studentessa irrequieta, poco avvezza a canalizzare la sua fantasia esuberante entro le rigidità e le acrobazie intellettuali della teologia dogmatica tradizionale. Terminati gli studi, Wanda si lascia guidare dalla sua sensibilità e dal suo intuito: scopre che i giovani e le adolescenti della piccola città in cui ha sede il seminario, luogo di una teologia accademica poco attenta alle piccole realtà quotidiane, hanno molto da dire e da dare, ma non sanno come farlo. Le chiese che frequentano concedono loro gli spazi tradizionali e le forme d’aggregazione consuete: ma questo non consente loro di esprimersi come vorrebbero. Così, Wanda, che prima che teologa è pittrice, incomincia a costruire con loro un progetto che chiama Fede & Arte, coinvolgendo anche animatrici ed animatori nell’ambito della musica, del teatro, della scultura. Ed è così che, riscoprendo i loro corpi e le loro mani, i ragazzi e le adolescenti dei quartieri marginali di Matanzas scoprono di Dio e della fede un volto nuovo, che si rivela nel contatto che dà vita all’opera d’arte, figlia di Dio e figlia dell’uomo. Dio e fantasia, fede e manualità incominciano a diventare complici e non più estranee: luogo del loro incontro e della loro fecondità diventa il corpo, universo nascosto da riscoprire, spazio segreto da tornare ad ascoltare. Nell'esperienza artistica Dio si comunica lasciandoci libere e liberi di esprimerci e la fede torna ad essere spazio della creatività e della scoperta anziché dell’obbedienza ottusa e dell’inibizione frustrante. E la teologia può finalmente divenire luogo del contatto tra noi e Dio, dimenticando quella rigida, invalicabile separazione tra «spirito» e «carne» in cui, per troppo tempo, una dottrina ecclesiastica tutta cerebrale ci ha tenuti prigionieri.   Pastore Alessandro Esposito - da www.chiesavaldesetrapani.com