E parlò nuovamente l’uomo e disse: “Si facciano i proiettili e le bombe per uccidere più rapidamente e facilmente, e si creino campi di sterminio per le moltitudini, camere a gas e forni per distruggere la vita con efficienza”. E così fu: e si sentì soddisfatto l’uomo a causa delle guerre. E non vi fu notte né mattino il terzo giorno prima della fine.
E disse ancora una volta: “Si creino le droghe ed altre forme di fuga per evadere dalla realtà che turba la nostra comodità”. E fu fatto così come egli aveva dichiarato. E non vi fu notte né mattino il secondo giorno prima della fine.
Parlò dunque per l’ultima volta l’essere umano e disse: “Creiamo Dio a nostra immagine: facciamo in modo che un altro Dio competa con noi. Predichiamo che questo Dio odia così come noi odiamo, sottomette ed uccide così come noi facciamo”. E vi fu un tremendo frastuono sulla faccia della terra. Poi, d’improvviso, si fece un gran silenzio. E vide Dio tutto ciò che l’umanità aveva fatto: e sul silenzio di quella rovina, Dio pianse»
Quando da Cuba mi è arrivata la richiesta di preparare una breve meditazione per una comunità piccola e povera, non conoscendo, in verità, il contesto in cui mi sarei trovata, ho provato a pensare a che cosa sarei stata felice di ascoltare io, se fossi stata membro di quella comunità.
E ho deciso di partire dal racconto che vi ho letto perché l’avevo trovato significativo per questo periodo di crisi e di incredulità e perché intendevo rivolgermi, soprattutto, alle donne.
Terra, difatti, è femminile, ed è sinonimo di fecondità. E Cuba, come Paese latino-americano, è carico di promesse quanto a risorse naturali e presenza giovanile.
Per me non può essere la stessa cosa predicare questo testo in un contesto latino-americano e tornare a farlo oggi, in un contesto europeo e siciliano: lì molto più che non qua trovo che vi sia speranza; chissà, forse perché vi è meno consumismo.
Come umanità abbiamo ereditato la terra e siamo stati invitati dal Creatore a conoscerla, a goderne, a popolarla, a custodirla e a lavorarla. Però si tratta di un’eredità che già non conosciamo più: come civiltà moderna siamo talmente invasi dalla tecnologia che la natura è diventata un qualche cosa di totalmente estraneo alle nostre vite. Il nostro unico contatto con la natura è rappresentato dai banchi della frutta del supermercato, molta della quale transgenica, ovverosia modificata geneticamente in maniera massiva, per riempire le nostre tavole con l’illusione dell’abbondanza. Questo tipo di manipolazione finirà per modificare i nostri cervelli e persino le nostre cellule. Poco a poco, stiamo assistendo alla gestazione di un essere umano diverso da quello che abbiamo conosciuto sino ad oggi: un essere umano che non concepisce la terra come parte essenziale di ciò che siamo, ma come luogo estraneo che è possibile depredare d’ogni risorsa, spazio insozzato con ogni tipo di rifiuti. Così abbiamo riempito la terra e persino il mare di plastica, vetro e d’ogni tipo di materiale che ogni giorno utilizziamo; per non parlare delle sostanze tossiche che inviamo in zone del mondo dove crediamo che la vita valga meno che da noi. Senza renderci conto che, rovinando l’ecosistema, pregiudichiamo noi stessi, annientando il futuro delle nuove generazioni.
Con questa disposizione d’animo ho rovistato tra i miei appunti, ritrovando il racconto che ho voluto condividere con voi, intitolato: “Il rovescio della creazione”, che avevo ricopiato tanti anni fa sul mio quaderno e che ho scelto per introdurre il testo su cui oggi rifletteremo. Si tratta di uno scritto anonimo che io ho modificato leggermente per conferirgli maggiore incisività. Con questo “rovescio della creazione” intendo mostrare sino a che punto noi esseri umani siamo responsabili dinanzi al Dio creatore, alla Madre Terra, al nostro prossimo e alle generazioni future: è in gioco la stessa sopravvivenza della nostra specie. Non è l’immagine di un Dio impotente, però, quella che voglio proporvi quest’oggi, ma quella di un Creatore che intende condividere il Suo potere con una Terra che Egli invita a dar frutto; un Dio che ci esorta ad essere responsabili affinché questa creazione continui e che non ci chiama appena ad averne cura.
Senza dubbio quello contenuto nel libro della Genesi è un racconto mitico, del quale, pertanto, possiamo dare un’interpretazione aperta o, per meglio dire, più interpretazioni. Per quel che riguarda la tesi scientifica del “big-bang”, secondo cui la vita sulla Terra si è generata a seguito di una grande esplosione e si è poi gradualmente evoluta, non vi sono problemi; così come non devono esservene per quanti credono che Dio abbia realmente creato in sette giorni i cieli e la Terra, ciò che vediamo e ciò che non vediamo. L’insegnamento che il mito intende fornire agli uni come agli altri è che questa Terra che si è formata e che continua a formarsi è sì per noi, ma non nel senso che l’uomo moderno ha assegnato a questa espressione.
Noi, difatti, questa Terra la stiamo distruggendo, violentando: non le concediamo riposo perché pretendiamo di nutrirci oltre la sazietà; la avveleniamo con pesticidi che uccidono i microorganismi che mantengono l’equilibrio dell’ecosistema; con la deforestazione ne prosciughiamo i corsi d’acqua ed allontaniamo da lei la pioggia, oltre a provocare l’erosione del suolo che poi paghiamo in termini di vite sepolte dal fango.
Il testo di genesi narra della creazione di un’infinità di esseri viventi che popolano la Terra; noi esseri umani non eravamo ancora comparsi quando queste specie già esistevano: piante, frutti, semi, animali che sono venuti prima di noi, perché Dio ha inteso crearli prima. Già questo solo fatto di essere venuti dopo, dovrebbe portarci al rispetto di quanto ci precede. L’umanità, narra il racconto di Genesi, fu creata il sesto giorno, dopo che Dio aveva formato gli animali e prima che si concedesse il riposo: potremmo dire che siamo creature di confine, sospese tra il tempo animale e quello divino.
All’inizio di questa narrazione, al versetto 11 del capitolo 1, viene detto: «E Dio disse: “Produca la Terra”». Si tratta del comandamento divino legato alla fecondità: “Produca la Terra erba, piante e alberi”. Non si ordina qualcosa a un essere inanimato: la Terra riceve da Dio la capacità di generare. Il verbo che noi traduciamo con
produrre, in ebraico suona come
si copra di erba,
verdeggi. Senza dubbio quest’atto non fu spontaneo: generare richiede tempo e chi fra noi è stato contadino e ha lavorato la Terra lo sa molto bene.
Quando prepariamo i nostri attrezzi per lavorare la Terra, tagliare le erbacce e preparare la semina, ci imbattiamo in una grande quantità di insetti, vermi, lombrichi, che aiutano la piante che seminiamo a crescere.
Non è poca cosa
ri-creare, aiutare la terra a realizzare il compito che Dio le ha affidato di
verdeggiare: questo, in verità, è il lavoro dei contadini:
ri-creare. «Verdeggia, rivestiti di verde», persino di quelle piante che noi consideriamo dannose o inutili, ignorando la sapienza della Natura. Eppure, anche noi esseri umani siamo fatti di Terra: per questo non possiamo disprezzare la creazione ed impossessarcene, spogliandola delle sue risorse. La Terra è nostra Madre, Colei che ci nutre, che ci permette di vivere in Lei e di Lei: e di Lei, della Sua materia, siamo fatti. In ebraico, uno dei due modi per indicare la Terra è il termine
‘adamah, parola femminile da cui proviene
‘adam, che non è, come spesso crediamo, un nome proprio, ma indica, più semplicemente, l’«essere umano», che Dio ha tratto dalla polvere della Terra.
Anche nella lingua del mio popolo, il popolo Mapuche, una lingua che chiamiamo
mapudungu, parola che significa “linguaggio della terra” e che rispecchia i suoni in gran parte onomatopeici, anche in questa mia lingua
mapu significa “terra” e
che “gente”: “gente della terra”, questo siamo. La nostra cultura, difatti, è profondamente legata alla Terra: eppure noi la Terra non la adoriamo, come hanno erroneamente pensato molti dei
conquistadores cristiani; piuttosto, della Terra ci prendiamo cura, perché sappiamo di dipendere da Lei. Di questa Terra noi siamo parte, come il filo che viene a comporre quel tessuto che oggi chiamiamo ecosistema.
Così come noi Mapuche, molti altri popoli originari dell’America Latina posseggono questa profonda consapevolezza del legame che ci unisce alla Terra: ma l’Occidente non intende riconoscere questa sapienza antica e semplice e chiama in causa il sapere scientifico.
In questo modo, la civiltà occidentale è arrivata a parlare non soltanto di ecologia ma, più di recente, persino di eco-teologia: e non si accorge nemmeno che, in realtà, ha scoperto l’acqua calda…
Dunque, siamo fatti della stessa sostanza che ci dà nutrimento: perché mai ci siamo allontanati tanto da questa consapevolezza di fragilità e di forza che ci viene dal rimanere legati alla Terra? Il fatto è che siamo diventati “animali di città” e il nostro unico contatto con la Terra continua ad essere quello con i banchi di frutta del supermercato.
Il nostro testo prosegue dicendo: «E così fu: la Terra produsse erba, piante che danno semi e alberi da frutto. E Dio vide che ciò era buono. E fu sera e fu mattina: terzo giorno». In conclusione il nostro testo, al versetto 24, mette in bocca a Dio lo stesso verbo: “
Produca la Terra esseri viventi secondo la loro specie, animali della campagna, rettili e bestie selvatiche. E così fu: e Dio vide che tutto ciò era buono”. Questo di cui il testo narra è il sesto giorno, lo stesso in cui Dio formo la donna e l’uomo a Sua immagine e somiglianza. Non ci ha generati la Terra, ma Dio, sia pur traendoci dalla stessa materia di cui è fatta la Terra. Per questo, quando moriamo, torniamo ad essere polvere. Dio ci ha creati intelligenti e creative, e ha messo il creato a nostra disposizione perché lo custodissimo e tornassimo a crearlo.
Perché non tornare a creare, dunque, anziché distruggere? Abbiamo una Terra tutta per noi che potremmo incominciare a curare nei piccoli dettagli, educando a questa stessa cura anche le nostre figlie e i nostri figli. La Genesi rappresenta una fonte inesauribile per scoprire come sia possibile vivere meglio su questa Terra, senza dimenticare mai che, in ultima istanza, si tratta di nostra Madre.
Spero che noi esseri umani, prendendo coscienza del fatto che siamo parte di questa Terra e non appena coloro che ne traggono profitto, possiamo cambiare il finale di quel “rovescio della creazione” che ho condiviso con voi all’inizio di questa riflessione. Finale che recita:
«Il settimo giorno l’uomo riposò di tutta la fatica che gli era costata rovinare la Terra. E la Terra tornò ad essere in pace, poiché non viveva più l’essere umano sulla Terra: ed ecco, ciò era buono più d’ogni altra cosa»
Ruth Magaly Cayul Melillán - 18 nov 2012 - da www.chiesavaldesetrapani.com