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31/12/2012 13:42:29

Il Natale e la storia

Per fornire una collocazione storicamente verificabile alla nascita di Gesù, Luca cita due figure della vita politica e civile: una arcinota, l’imperatore romano Augusto; l’altra conosciuta da coloro che vivevano in Israele e nelle sue immediate vicinanze, il governatore della Siria Quirinio. Luca, in questo modo, vuole mettere in chiaro: Gesù fu un uomo in carne ed ossa, che percorse i sentieri della Galilea in un tempo preciso, per individuare il quale fornisco ai lettori i dati necessari. Per rafforzare ulteriormente l’attendibilità delle sue parole, l’evangelista cita un evento epocale, che tutti gli abitanti dello sconfinato impero romano ricordavano di certo: il censimento che lo stesso Augusto ordinò durante il suo regno. Ecco fornite le coordinate: ora è possibile collocare nel tempo in maniera precisa e credibile la vita di Gesù e la sua predicazione itinerante. I suoi genitori, infatti, presero parte al censimento: per poterlo fare furono costretti a recarsi presso la città natale del padre di Gesù, che era di Betlemme di Giudea, non distante da Gerusalemme. Un bel viaggio per quei tempi, in cui tutti gli spostamenti avvenivano a piedi: Maria e Giuseppe difatti, ci dice il testo, vivevano a Nazareth di Galilea, là dove Gesù, più tardi, sarebbe cresciuto. Dal loro villaggio, situato nel nord, nei pressi dell’attuale Libano, Betlemme distava almeno tre, quattro giorni di cammino, che probabilmente furono ancora di più dacché Maria, ci informa il testo, era incinta. Ma tant’è: l’ordine era quello di recarsi presso la città paterna; e gli ordini di un imperatore, si sa, non ammettono replica.   Questa, dunque, l’esposizione dei fatti riportata da Luca. Come sappiamo, l’altro testo canonico che racconta l’infanzia di Gesù, l’evangelo secondo Matteo, narra in tutt’altro modo la vicenda. A quanto ci dice, difatti, Maria e Giuseppe risiedevano a Betlemme e non a Nazareth; dovettero fuggire in Egitto allo scopo di evitare la strage di neonati ordita da Erode, che Luca sembra non conoscere; il piccolo Gesù nasce nella casa dei genitori e non, come narra il testo lucano, in una mangiatoia. Insomma: tra i due testi sussistono, insieme con alcune somiglianze, naturalmente, anche profonde differenze. Si tratta di elementi tali da impedire una piena concordanza tra le due narrazioni, entrambe ritenute canoniche e, pertanto, fondanti per quel che riguarda la fede comunitaria. Ma proprio qui sta il punto: la fede nasce come esperienza comunitaria e, nel tempo, si trasforma in confessione ecclesiastica. Questa evoluzione ha prodotto come conseguenza una lunga serie di tentativi attraverso i quali cercare di armonizzare tra di loro tradizioni nate come indipendenti: inutile dire che, immancabilmente, si è trattato di operazioni destinate al fallimento. L’impossibilità di pervenire ad un testo che si dimostrasse capace di rendere ragione delle contraddizioni contenute nei due racconti canonici dell’infanzia di Gesù era motivata proprio dalla genesi dei vangeli, i quali, originariamente, erano testi utilizzati da una specifica comunità e non scrittura sacra, il cui obiettivo era quello di uniformare il credo di una chiesa istituzionale. Scopo di ogni testo evangelico, inizialmente, era quello di dare testimonianza dell’uomo Gesù, «messia e figlio di Dio», secondo la definizione, condivisa da tutti e quattro i vangeli, che ne dà Marco all’inizio del suo racconto (Mc 1:1). Ogni comunità, poi, declinerà questo nucleo originario dell’esperienza di fede secondo sensibilità diverse, espressione di un pluralità che, sin dalle origini, ha caratterizzato il movimento cristiano, prima che esso si configurasse secondo un modello ecclesiastico e dogmatico omologato. Che alcuni fondamentalisti si rifiutino di riconoscere quelli che sono i risultati ormai assodati di due secoli di ricerca storica ed esegetica non sorprende affatto: negare ad oltranza il ruolo della cultura e della libera ricerca in rapporto alla fede, arrivando persino a demonizzarlo, si attaglia perfettamente al loro ruolo di integralisti, al quale, più per interesse che per reale convinzione, essi non possono rinunciare. Dovrebbe destare stupore e persino sconcerto, invece, il fatto che ad una prospettiva di questo tipo aderisca una persona istruita come l’attuale pontefice: il suo livello di erudizione, difatti, porta ad escludere l’ipotesi secondo cui Ratzinger non sia a conoscenza dell’ormai plurisecolare evoluzione della ricerca in ambito biblico. Motivo per cui il suo non può che essere un atteggiamento deliberatamente oscurantista: sa perfettamente, ma si ostina a negare. La domanda da porsi, di fronte a questo occultamento dei dati in suo come in nostro possesso, è questa: perché insistere nel difendere l’indifendibile? Nell’ultimo testo dato alle stampe, intitolato L’infanzia di Gesù, Benedetto XVI si prodiga in un tentativo che persino un biblista alle prime armi considera velleitario: prova, difatti, a sostenere la tesi secondo cui, cito, «presentare il Gesù dei vangeli [significa presentare] il Gesù reale, il Gesù storico vero e proprio» che poi, manco a dirlo, corrisponde a sua volta a quell’immagine univoca e sempre identica a se stessa che è il Cristo predicato dalla chiesa cattolica romana. Per sostenere l’insostenibile, Ratzinger nega l’evidenza e appiattisce la pluralità delle narrazioni di Luca e di Matteo in quell’uniformità a lui tanto cara, che è la cifra della sua concezione della chiesa ciecamente obbediente all’infallibilità del magistero papale.   La speranza, da parte di chi vorrebbe continuare a mettere in relazione fede e riflessione, è che i fedeli cattolici, per primi, dimostrino la necessaria maturità e l’auspicata autonomia di pensiero nel riconoscere l’inconsistenza del proposito che anima le pagine del pontefice. In questo, vogliamo augurarci, saranno aiutati da quella fetta di cattolicesimo illuminato che è ancora provvista di spirito critico e che non lascerà nell’isolamento le sempre più rare voci fuori dal coro che provano ancora ad opporsi allo svilimento del pensiero che le gerarchie promuovono. Per quel che, invece, riguarda la mia, la nostra chiesa, l’auspicio è un altro e va nella direzione di un pieno riconoscimento della pluralità di espressione in ambito teologico: a fronte di una notevole apertura nei riguardi di tutto ciò che concerne le questioni etiche, sociali e culturali, noto infatti una malcelata ritrosia al confronto nell’ambito delle questioni legate alla fede. Eppure, a rigor di logica, si tratta di un aspetto così intimo da dover essere più d’ogni altro soggetto a quel principio di libertà di cui, opportunamente, diciamo di fare il nostro unico fondamento. Dunque, se siamo in grado di affermare senza difficoltà che i racconti dell’infanzia non sono una biografia storica di Gesù; se riconosciamo di buon grado il fatto che Betlemme, con ogni probabilità, è scelta quale luogo della nascita di Gesù soltanto per dar credito alle profezie veterotestamentarie; se ammettiamo senza scandalizzarcene che è improbabile che Giuseppe, e pertanto Gesù, fosse davvero di discendenza davidica; allora dovremmo accogliere con la stessa semplicità il fatto (e non l’ipotesi) che i vangeli contengono teologie diverse e non armonizzabili. Queste distinte, insopprimibili sensibilità teologiche, pertanto, sono chiamate a convivere e a confrontarsi, non a confluire in un sistema dottrinale uniformato. Quest’ultimo, difatti, può essere il desiderio nemmeno troppo inconfessato della visione cattolica, ma non può costituire l’approdo obbligatorio della libera ricerca che la Riforma, specie quella che non giunse ad affermarsi storicamente, ha lasciato come eredità all’ecumene cristiana. Ma perché ciò possa realizzarsi pienamente anche in seno al protestantesimo, è necessaria una rinuncia che, a quanto mi è dato di intendere, anche le nostre chiese sono lontane dal compiere: quella relativa alla pretesa di universalità. Lo abbiamo detto: Luca e Matteo, originariamente, indirizzano i loro scritti alle rispettive comunità. Ed è un cristianesimo comunitario ciò a cui dovremmo tornare a dar vita. Perché ciò sia possibile, però, dobbiamo riconoscere l’impossibilità e persino la nocività di ogni ambizione di universalità o, il che è la stessa cosa, di cattolicità: tutto ciò che accampa pretese di universalità, difatti, esclude la convivenza e il confronto di sensibilità e di sfumature diverse. Chi ha di mira la cattolicità della chiesa, in verità, persegue lo scopo, assai meno nobile, di uniformare la fede alla dottrina. Si tratta di un aspetto che, come sovente accade, ha colto meglio di noi sedicenti cristiani uno spirito libero e acuto come Umberto Galimberti, che nel suo ultimo, illuminante testo, che ha per oggetto proprio la religione cristiana, scrive: «Interrompono la comunicazione tutte quelle religioni che, in nome della fede, sacrificano il pensiero a un contenuto dogmatico (…) A caratterizzarle è la cattolicità [la quale] afferma di possedere il sapere totale con garanzie oggettive (…) La potenza del sistema che così si costruisce sta nella sua pre-potenza, che esclude a priori (pre) ogni ulteriorità di sensi e di significati possibili, a eccezione di quelli predisposti e coordinati dal sistema (…) Quando la verità è ridotta a quella presieduta dall’autorità assoluta [sia essa quella del magistero papale o quella dell’infallibilità delle scritture intese come rivelazione divina] (…) l’uomo (…) diventa animale domestico, incapace di oltrepassare il recinto».[1]   Domenica 30 Dicembre 2012 – Pastore Alessandro Esposito