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10/03/2013 06:03:58

Fui straniero e mi accoglieste

Questo è un popolo che nasce proprio da uno straniero, Abramo. Costui lascia la sua terra, Ur dei Caldei, in Mesopotamia, i suoi parenti, i suoi affetti per ubbidire al volere divino e giungere in un nuovo paese. La storia del popolo di Israele passa poi per un pronipote di Abramo, Giuseppe, il quale, dopo essere stato venduto dai suoi fratelli ad un gruppo di mercanti madianiti, riesce ad integrarsi (dopo non poche difficoltà) in un'altra terra straniera, quella di Egitto. Giunge poi, la storia di Israele, a Mosè, discendente dalla tribù di Levi, allevato in Egitto come un figlio dalla figlia del faraone. E nella Torah, la legge del popolo ebraico (quella che l'Eterno diede proprio a Mosè) c'è un vero e proprio "diritto dello straniero". Dalla lettura biblica del Levitico abbiamo ascoltato che l'israelita non doveva far torto allo straniero, doveva trattarlo come se fosse un israelita, e soprattutto doveva amarlo come ognuno ama se stesso. Questo perché anche Israele aveva vissuto una non facile situazione in Egitto e conosceva la sofferenza che uno straniero prova se il suo stato di immigrato non trova dall’altra parte accoglienza. Proteggere lo straniero residente all'interno dei propri confini, per Israele significava confessare la fede nel proprio Dio. Un Dio che sta dalla parte dei "deboli": lo straniero senza dubbio fa parte della categoria del debole; un Dio che si è rivelato tale ad Israele quando, ascoltandone il grido d'aiuto, lo ha soccorso e salvato dalla condizione di schiavitù in terra straniera. Al contrario sfruttare ed opprimere lo straniero significava rinnegare il proprio Dio e adorarne un altro. Avete notato che, dalla lettura del verso in Levitico, la legge di Dio va oltre la semplice accoglienza? Lo straniero, infatti, non va trattato e soccorso solo dal punto di vista giuridico e sociale come uno dei tanti e comuni abitanti del paese, ma va anche amato. Eppure se andiamo avanti con la storia biblica arriviamo ai libri di Esdra e Nehemia dove ci scontriamo con alcune tra le pagine per me più tristi della Sacra Scrittura. Dopo l'esilio Babilonese, per “purificare” il popolo di Israele e riacquisire l'identità di nazione eletta a santità, i sacerdoti emanano delle disposizioni che, contrarie allo spirito della legge del Levitico, testimoniano chiusura e avversione verso gli stranieri. Si arriva purtroppo a fare piazza pulita di tutto ciò che è straniero, compreso cacciare dalle proprie case le mogli straniere e figli avuti con esse: queste unioni e tutto ciò che ne deriva rappresentano un motivo di contaminazione e di infedeltà. Quanta cattiveria in nome di Dio! Quante famiglie distrutte. Quanta accoglienza negata. Quanta repulsione per il “diverso da me”. A volte mi sembra che certe situazioni di rifiuto continuino a ripetersi a distanza di millenni ancora oggi nel nostro mondo cosiddetto “civilizzato”. Lo stesso rifiuto che Gesù ha ricevuto da "quelli di casa sua", dalla sua stessa gente. Sin dalla sua nascita nessuno aveva un posto per Lui. Gesù, che in terra ha accolto gli ultimi, gli emarginati, i piccoli e gli stranieri, è stato percepito dai suoi conterranei come un estraneo e da essi è stato escluso. Lui - che ha condannato il formalismo religioso e ridato il vero spirito alla legge, richiamando alla logica dell'amore verso l'altro chiunque esso sia: straniero o connazionale, estraneo, familiare, amico, nemico - è stato visto come un "diverso", come un tipo “strano”, uno "contro" la legge. Uno straniero nella propria terra. Il verso "fui straniero e mi accoglieste", scelto come titolo per questa giornata mondiale di preghiera, è estrapolato dal contesto che per il vangelo secondo Matteo è la visione apocalittica ed escatologica del giudizio finale di Dio. "Fui straniero e mi accoglieste" è un invito, per l'ebreo prima e per ogni credente poi, a tornare a vivere secondo l'unico e grande comandamento che Gesù è venuto a ripristinare: il comandamento dell'amore, che include in sé tutti gli altri comandamenti. E’ un invito ad accogliere tutti i minimi che il Figlio dell'uomo chiama fratelli. Per questo, tirando fuori questa frase dal contesto apocalittico in cui è inserita, proviamo ad ampliare lo sguardo e a non fermarci solo a quello che comunemente e per tradizione è uno "straniero da accogliere". So per certezza che la condizione di estraneità non è solo dovuta ad una differenza di nazionalità perché ci si può sentire stranieri anche a casa propria quando - per una diversità - non si è accettati, non si è accolti e amati, ma si viene esclusi, emarginati, disprezzati e derisi dai propri familiari. Spesso si commette l'errore di dedicare la maggior parte del tempo a combattere grandi battaglie sociali, trascurando figli, coniugi, familiari; allontandando chi chiede aiuto; estraniando chi è nel bisogno. A volte ci si comporta come quel padre della parabola che ha lo sguardo sempre fisso al di fuori della finestra in attesa dell'arrivo del figlio che è andato via lontano; un padre che non si rende conto che questo suo atteggiamento di tristezza provoca sofferenza all’altro figlio, quello a lui vicino, che intanto gli si allontana. Facciamo attenzione, dunque, a non trascurare coloro che per noi non sono degli stranieri veri e propri ma che a causa nostra vivono, soffrendo, come se lo fossero. Esaminiamo noi stessi e cerchiamo di trasformare la nostra ostilità in ospitalità, la nostra diffidenza in accoglienza, la nostra indifferenza in amore verso tutti i "tipi" di stranieri. Dio desidera un'umanità che si senta da Lui accolta e mai trascurata, nella quale tutti siamo chiamati ad accoglierci e mai a trascurarci. Questa è l'unica possibilità di sopravvivenza: l'incontro di fratelli e di sorelle (connazionali e non, familiari e non, coetanei e non) che nell’accoglienza e nella condivisione si arricchiscano.                                                                             Lella Teresi - Trapani, 3 marzo 2013 - www.chiesavaldesetrapani.com