La Risurrezione è dunque il suo unico fondamento, la pietra angolare che regge l'intero edificio. Non c'è — che si sappia — nessun'altra religione al mondo che abbia, come suo fondamento, una Risurrezione. E non è difficile capire perché: la risurrezione è un fenomeno di per sé assai poco o per nulla credibile, perché esula completamente dall'orizzonte dell'esperienza umana e non si presta neppure a essere immaginato. Per di più, la Risurrezione di Gesù, avvenuta, sembra, di notte o la mattina presto, è senza testimoni: molti hanno visto il Risorto, nessuno l'ha visto risorgere. Può allora nascere il sospetto che le cosiddette «apparizioni» del Risorto siano semplicemente delle «visioni» (per non dire «allucinazioni») dei discepoli. Fatto sta che le prime testimonianze, rese da donne, dell'avvenuta Risurrezione, non furono considerate degne di fede proprio dagli Undici, che per primi avrebbero dovuto crederci. Invece, le parole delle donne «parvero loro un vaneggiare» (Luca 24,11). La Risurrezione di Gesù è il fondamento del cristianesimo, ma bisogna ammettere che si tratta di un fondamento, a prima vista, così poco credibile e creduto, così discusso e discutibile, così facilmente contestabile e oggettivamente così fragile perché del tutto indimostrabile che se il cristianesimo fosse una pia (e fraudolenta) invenzione dei discepoli, avrebbero sicuramente scelto, per accreditarlo, un fondamento completamente diverso. Non ci sono prove che Gesù sia risorto. Eppure la sera di Pasqua, a Gerusalemme, i discepoli hanno fatto eco all'annuncio mattutino delle donne, dicendo anche loro: «Il Signore è veramente risuscitato!». La realtà di una presenza è stata più forte dell'assenza di prove.
La corporeità del Risorto
La testimonianza unanime e concorde dei racconti evangelici e dell'apostolo Paolo è che «Risurrezione» tanto per Gesù quanto per ogni vivente significa, senza ombra di dubbio e senza possibili equivoci, Risurrezione del corpo. Non significa invece Risurrezione della carne, formula abituale nei più antichi simboli o confessioni della fede cristiana, ma inesistente nel Nuovo Testamento. La ragione per cui i cristiani del II e III secolo dichiaravano, di solito al momento del loro battesimo, «Credo (...) nella risurrezione della carne» è nota: era la volontà di prendere nettamente le distanze, anzi di contrastare frontalmente le posizioni della gnosi nelle sue varie articolazioni (anzitutto cristiane), secondo le quali la «carne», e in generale il mondo materiale, sono per loro natura irrecuperabili, senza futuro e perciò destinati alla distruzione; solo lo spirito e ciò che è spirituale appartengono a Dio e all'eternità. Quando cessò l'emergenza gnostica, la formula non biblica «Risurrezione della carne» fu abbandonata e sostituita con quella conforme alla Scrittura «Risurrezione dei morti», che ricorre, ad esempio, nel simbolo niceno-costantinopolitano del 381.
Detto questo è, oltre che lecito, opportuno rilevare la particula veri contenuta nell'espressione «Risurrezione della carne»: la particella di verità è questa, che nel pensiero biblico, vetero e neo-testamentario, la «carne», cioè ciò di cui è fatto il corpo, benché sia, pur col suo fulgore, caduca e mortale, non è però destinata alla distruzione, ma ha, come vedremo, un destino migliore. L'antico profeta è invitato a gridare «che ogni carne è come l'erba e tutta la sua grazia è come il fiore del campo. L'erba si secca, il fiore appassisce...» (Isaia 40, 6-7). E l'apostolo Paolo dichiara senza mezzi termini che «carne e sangue non possono ereditare il Regno di Dio» (1 Cor 15,50). Questo però non significa che «carne e sangue» siano senza futuro: lo sono così come sono ora. Ma «carne e sangue» sono destinati non a restare così come sono ora, ma a essere trasformati.
Questo è in sostanza il messaggio del Nuovo Testamento, che percorre una via sua, originale e diversa da altre di quel tempo. Tra la via della gnosi che nega alla «carne» qualsiasi futuro, la condanna alla distruzione e predica la scomparsa del corpo, e la via di un certo tardo giudaesimo che concepisce la risurrezione come ripristino materiale del corpo terreno, come se la vita eterna non fosse qualitativamente diversa da quella terrena e ne fosse semplicemente la continuazione e perpetuazione, il Nuovo Testamento percorre una terza via, che è quella, appunto, della risurrezione dei corpi, di cui quella di Gesù è la «primizia» (1 Cor 15,20). Questa primizia è dunque la risurrezione del corpo di Gesù. Il suo spirito, non essendo mortale, non aveva bisogno di risuscitare. Il suo corpo invece ne aveva bisogno, essendo mortale come il nostro. «È risuscitato; non è qui; ecco il luogo dove l'avevano posto» (Marco 16,6). L'assenza di Gesù coincide con l'assenza del suo corpo; egli non è lì perché il suo corpo non è più lì, nel luogo in cui lo avevano posto. Per vederlo «fisicamente» i discepoli dovranno recarsi in Galilea, dov'egli li precede (v. 7). La corporeità di Gesù risorto, presente in tutti gli Evangeli, è particolarmente sottolineata da Luca e da Giovanni. In Luca il Risorto è un viandante che il giorno stesso di Pasqua percorre la stessa strada dei due discepoli di Emmaus, ai quali «si accostò e cominciò a camminare con loro» (Luca 24,15). I due non lo riconoscono o perché aveva un aspetto troppo comune per essere il Risorto (nessun segno esteriore lo rivelava come tale) oppure perché il corpo del Risorto non assomigliava a quello del Gesù storico. Solo il gesto eucaristico (vv. 31-32) permetterà ai due discepoli di scoprire che il misterioso viandante era Gesù. La sera di quello stesso giorno egli «apparve in mezzo» al gruppo dei discepoli, i quali però s'impaurirono, pensando di «vedere un fantasma» (vv. 36-37). Gesù allora, per convincerli del contrario, mostra loro i segni delle ferite alle mani e ai piedi e, quasi sfidando la loro incredulità, dice: «Palpatemi e guardate; perché un fantasma non ha carne ed ossa come vedete che ho io» (v. 39). Si tratta evidentemente di un'iperbole: il Risorto, pur non essendo un fantasma, non ha «carne e ossa»!
L'iperbole serve ad affermare, con un vigore espressivo incontrollato, la concretezza —si sarebbe tentati di dire: la materialità, o la fisicità — del corpo del Risorto. Ma siccome neppure questo è sufficiente a vincere l'incredulità dei discepoli, Gesù chiede loro qualcosa da mangiare; gli porgono del pesce arrostito, ed egli «lo prese e mangiò in loro presenza» (v. 43). Lo scopo è Io stesso: dimostrare che si tratta di un vero corpo, e non di uno spirito. Gli spiriti non mangiano, i corpi invece hanno bisogno di cibo.
Le stesse cose, ma con molte varianti, le racconta l'evangelista Giovanni. Anche per lui, come per Luca, Gesù risorto non è riconoscibile. Come i due discepoli di Emmaus, pur conversando con Gesù, non lo riconobbero, così Maria di Magdala «vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era Gesù» (Giovanni 20,14). È un modo per dire che il corpo del Risorto non è la semplice riproduzione del corpo del Gesù storico. La persona è la stessa, il corpo no. È lo stesso Gesù, ma in un modo di esistenza altro, diverso, nuovo. E mentre i due di Emmaus riconoscono Gesù dal gesto eucaristico, Maria di Magdala lo riconosce dalla voce. Giovanni ha in più l'episodio di Tommaso (20, 24-27), che però non dice nulla di sostanzialmente nuovo rispetto al racconto parallelo di Luca, e l'episodio di Gesù che fa colazione con i discepoli2 (21, 12-13) , cioè mangia, proprio come in Luca, anche se in Giovanni non lo si dice apertamente, ma la cosa è implicita. Tutte queste informazioni hanno un duplice scopo. Il primo è affermare l'identità tra il Gesù risorto e il Gesù storico: il Risorto è il Crocifisso, il Crocifisso è il Risorto. Il secondo è mettere in luce il fatto che il corpo del Risorto non è apparente e inconsistente, ma un vero corpo, anche se diverso da quello fisico del Gesù storico.
Quella domanda all'apostolo Paolo
«Con quale corpo si risuscita?» è la domanda che alcuni cristiani di Corinto pongono all'apostolo Paolo (1 Cor 15,35) e che quest'ultimo prende molto sul serio, tanto da dedicarle una lunga risposta, che occupa quasi tutta la seconda parte del capitolo 15 della I Lettera ai Corinzi (vv, 36-53). In realtà le domande formulate nel v. 35 sono due. La prima è: «Come risuscitano i morti?», cioè com'è possibile che i morti, dopo la decomposizione e dissoluzione dei loro corpi, tornino in vita? Paolo risponde nei vv. 36-38, rifacendosi all'analogia del seme che muore e della pianta che da esso nasce. Si tratta solo diun'analogia, di un praeludium resurrectionis, come dice Calvino3 , sufficiente però a illustrare un punto decisivo, che è questo: la morte è sì, da un lato, inesorabilmente, la fine del seme, ma d'altro lato segna anche un inizio, quello della pianta. Il corpo del seme e quello della pianta sono totalmente diversi, eppure nascono «come Dio ha stabilito» (v. 38), uno dall'altro. La pianta non nasce dal nulla, bensì dal seme; il seme muore, ma non diventa nulla, diventa pianta. Seme e pianta non si rassomigliano per niente, non è possibile riconoscere né il seme nella pianta, né la pianta nel seme, eppure tra loro c'è un rapporto profondo e vitale, anche se, paradossalmente, mediato dalla morte. Il seme deve morire, altrimenti resta «nudo» (v. 37), ma la sua morte non significa solo la sua fine, ma anche la sua trasformazione. Applicata alla Risurrezione, l'analogia veicola questo messaggio: il corpo fisico, quello che riceviamo alla nascita, muore, ma non è semplicemente dimenticato e cancellato, è piuttosto trasformato e inverato in un nuovo corpo, che è realmente nuovo rispetto al precedente, e completamente diverso (come lo è la pianta rispetto al seme), ma non è creato indipendentemente dal precedente, si tratta ancora di quel corpo, o meglio della persona che in esso e con esso si individuava, però in un nuovo modo di essere e di esistere. Il nuovo corpo non è il frutto di un processo evolutivo del primo, non è un suo miglioramento o perfezionamento; è un'altra cosa, pur essendo sempre un corpo. Questo discorso di Paolo riguarda la Risurrezione dei morti in generale, ma ovviamente vale anche e in primo luogo per la Risurrezione di Gesù — modello di tutte le Risurrezioni — e per il rapporto tra il corpo del Gesù storico e quello di Gesù risorto. Tra il corpo fisico e il corpo risorto c'è dunque al tempo stesso radicale discontinuità e reale continuità. La risposta alla prima domanda: «Come risuscitano i morti?» è dunque questa: risuscitano per un atto creativo di Dio che, come trae dal seme che muore la pianta che vive, così trae dal corpo mortale un corpo immortale. Il nuovo corpo non è il ripristino del vecchio, né una sua nuova versione ricevuta e corretta; è un corpo davvero nuovo, assolutamente inedito, che però non esisterebbe se non fosse preceduto dal vecchio.
Così giungiamo alla seconda domanda: «Con quale corpo i morti tornano a vivere?» (v. 35). Paolo risponde ricorrendo a una seconda analogia, tratta come la prima dalla natura (vv. 39-41): secondo le conoscenze del tempo egli afferma che esistono diversi tipi di carne (umana, di animali terrestri e di animali marini) e diversi tipi di corpi (celesti e terrestri), dotati di diverse gradazioni di splendore: sono tutti corpi, ma molto diversi tra loro. Applicata alla Risurrezione, l'analogia veicola questo messaggio: è corpo quello terrestre, «corruttibile» (v. 42), «misero» e «debole» (v. 43), ed è corpo quello celeste, «incorruttibile» (v. 42), «glorioso» e «potente» (v. 43). Il soggetto è sempre il corpo: in condizioni completamente diverse, anzi opposte, ma sempre di corpi si tratta. «Risurrezione» non significa dunque transizione dal corpo allo spirito, dal mondo materiale a quello spirituale o ideale, come voleva il pensiero greco4, ma significa transizione da un tipo di corporeità a un'altra, altrettanto corporea, ma non più carnale. La Risurrezione, insomma, inaugura un nuovo tipo di corporeità. La nozione-chiave che Paolo introduce nel discorso, di cui anzi costituisce in qualche modo il coronamento, è quella di "sõ apneu atikòn"5, di solito reso in italiano, troppo letteralmente, con «corpo spirituale» . Si tratta di un'espressione «molto ben scelta»6 perché pone inequivocabilmente fine al divorzio tra «corpo» e «spirito» e postula, in sintonia con il Nuovo Testamento, la destinazione finale del corpo come tempio dello Spirito Santo (1 Cor 6,19; 3, 16-17). Davanti all'espressione «corpo spirituale» si può affermare che «tutte le vie di Dio confluiscono nella corporeità» — nella nuova corporeità del corpo risorto —, fermo restando che il corpo spirituale «non è una grandezza biologica» 7. Ecco dunque la risposta alla seconda domanda: «Con quale corpo i morti tornano a vivere?»: i morti tornano a vivere con un corpo uguale a quello di Gesù risorto, che l'apostolo Paolo chiama «ultimo Adamo», cioè capostipite, a partire da Pasqua, dell'umanità risorta, quella nuova e definitiva alla quale, nella fede, apparteniamo, mentre il primo Adamo è stato il capostipite della vecchia umanità, alla quale pure, nella carne, apparteniamo. Ma «come abbiamo portato l'immagine dell'uomo terrestre, così porteremo anche l'immagine del celeste» (1 Cor 15,49), cioè del Cristo glorificato.
Con le parole del Salmo
Resta un'ultima domanda, che in realtà né gli evangeli né l'apostolo Paolo sollevano ed affrontano, ma che merita di essere posta: «Il corpo di Gesù, morto in croce e deposto nella tomba, che fine ha fatto? Si è lentamente decomposto, putrefatto e dissolto come accade a ogni cadavere umano, che torna alla terra da cui è stato tratto, oppure — sempre più spesso — è ridotto in un pugno di cenere in un forno crematorio?». La risposta a questa domanda, sia negli Evangeli che in Paolo, è solo indiretta e consta di due elementi: un fatto e due verbi. Il fatto è il sepolcro vuoto: il corpo fisico di Gesù non è rimasto lì a imputridire, è stato sottratto al potere distruttivo della morte. Nella sua predicazione di Pentecoste l'apostolo Pietro immagina una preghiera di Gesù al Padre, formulata con le parole del Salmo 16: «Tu non lascerai l'anima mia nel soggiorno dei morti e non permetterai che il tuo Santo subisca la decomposizione» (Atti 2,27.31; 13, 34-35).
Evidentemente, l'idea di una dissoluzione del corpo fisico di Gesù ripugnava alla generazione apostolica. I due verbi sono «rivestire» e «trasformare» o «trasfigurare». «Rivestire» ricorre più volte nelle lettere di Paolo (1 Cor 15, 5354; 2 Cor 5,4; Efesini 4,24; Colossesi 3,10; Galati 3,27: Romani 13,14) e «implica evidentemente l'idea della continuità tra il corpo nuovo e il corpo vecchio»8 - continuità, s'intende, non nel senso della sua perpetuazione fisica, ma, come già s'è detto, nel senso del suo inveramento in un nuovo modo di esistenza. L'idea, insomma, non è quella della putrefazione, ma della trasformazione. E ciò che esprime perfettamente il secondo verbo in questione: «mutare», «cambiare», «trasformare» (1 Cor 15,51), o anche «trasfigurare» (Filippesi 3,21). Anche qui l'idea è la stessa: dato che, come già s'è detto, «ciò che è corruttibile», cioè il corpo che si decompone, così com'è ora «non può ereditare l'incorruttibilità»9 (15,50), proprio per questo motivo «bisogna che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità»10 (v. 53). Il corpo fisico che si corrompe e muore — proprio quel corpo — viene rivestito da Dio con un corpo, cioè una forma di esistenza, incorruttibile e immortale, «affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita», e non dalla morte (2 Cor 5,4) . Come si vede, il pensiero dominante è quello della vita, non della morte, del nuovo inizio, non della fine. Ciò che è mortale non è abbandonato a se stesso, cioè alla morte, ma viene avvolto da ogni lato e assorbito dalla vita.
Di più non si può dire. In verità non c'è bisogno di dire di più.
1 L'avverbio greco è óntos = «veramente», «realmente»; si potrebbe, volendo, anche tradurre alla lettera con «ontologicamente».2 il capitolo 21 di Giovanni, come è noto, è un'appendice che non faceva parte del piano originario dell'Evangelo, la cui conclusione si trova nei vv. 30-31 del capitolo 20. Il cap. 21, probabilmente dovuto a un redattore successivo, è però «giovannico» nello stile e nel contenuto, cioè coerente con il resto dell'Evangelo.3 Citato da K. Barth, Die Auferstehung der Toten. Eine akademische Vorlesung über 1. Kor. 15, EVZ, Zurigo 1953 (l' ediz. 1923!), p. 111.
4 La difficoltà di questo pensiero ad associare l'idea di corpo al mondo e alla vita divina, e quindi ad ammettere la risurrezione dei corpi, si vede, tra l'altro, in Origene, il quale «postula per la fine dei tempi la scomparsa di tutti i corpi, anche dei corpi sottili della risurrezione» (J. Héring, La première épître de Saint Paul aux Corinthiens, Delachaux & Niestlé, Neuchâtel-Paris 1949, p. 145).
5 «Spirituale» infatti viene facilmente frainteso nel senso di «immateriale». Ma un corpo immateriale non è più un corpo, bensì una pura forma senza sostanza, proprio come quel «fantasma» (in greco "pneûma" «spirito»!), che Gesù risorto dichiara di non essere (Luca 24,39)! È vero d'altro canto che le traduzioni alternative proposte («animato dallo Spirito», «soprannaturale») si prestano a obiezioni persino maggiori; perciò alla fine conviene mantenere la versione «corpo spirituale», segnalando però il rischio di fraintendimento.
6 J. Héring, op.cit. [Nota 4], p. 147.
7 K. Barth, op.cit. [Nota 3], p. 116.
8 F. Godet, Commentaire sur la première epître aux Corinthiens, Il, L.-A. Monnier, Neuchâtel 1965 (la ediz. 1886!), p. 434.
9 Si noti la forza di questo «bisogna». Il verbo greco è "dei" , che nel Nuovo Testamento rimanda sempre a una volontà e disposizione divina, che nulla può impedire.
10 II verbo greco tradotto con «assorbito» è "katapotsê", congiuntivo aoristo passivo di "katapíno", che può anche essere reso con «inghiottito», «consumato». L'idea sembra essere che ciò che è mortale non si consuma nella decomposizione fisica, ma, trasformato,
viene assunto, risucchiato, inghiottito nella vita divina.
Paolo Ricca in "Testimonianze" n. 486/87 del febbraio 2013