E proprio di manifestazione parla il nostro testo, sin dall’inizio: soggetto di questo «darsi a conoscere», come anche può essere tradotto il verbo greco del testo originale, è Gesù, che si mostra, sì, ma – lo vedremo – in modo del tutto peculiare. Luogo di questo mostrarsi, significativamente, è l’amata Galilea, lungo le sponde del lago di Tiberiade: lo stesso, dunque, da cui tutta la vicenda che abbraccia la vita e l’annuncio di Gesù aveva preso avvio. Il capitolo 21 di Giovanni è uno dei più interessanti e complessi di tutti i vangeli cosiddetti canonici per quel che riguarda il compito, sempre affascinante e inesauribile, dell’interpretazione. Se scorriamo infatti all’indietro le pagine di questo vangelo, prima che il nostro brano abbia inizio, ci imbattiamo in dei versetti (20:30-31) che rappresentano, senz’ombra di dubbio, una prima conclusione del testo. Testo che invece, sorprendentemente, riprende. Mentre al termine del capitolo 20 i discepoli si trovano riuniti in Gerusalemme, chiusi entro le pareti di una casa in cui li trattiene il timore, ora ci ritroviamo tra gli spazi aperti di quella campagna da cui tutto aveva avuto inizio, in quella «Galilea delle genti» invisa alla classe sacerdotale del tempio, perché poco incline all’ortodossia e alla rigida osservanza dei precetti religiosi, fedele ad una tradizione profetica radicale e dissidente, permeata culturalmente e spiritualmente da aspetti legati alla tradizione ellenistica, connotata socialmente ed economicamente da uno stile di vita rurale, alieno dai privilegi di quel contesto urbano che prosperava alle sue spalle. In questo luogo di libertà e di quotidiana fatica torna a riecheggiare la presenza di Gesù, nel nostro racconto immaginata come fisica e reale ma che, come di consueto, prenderà forma in una voce che domanda e sprona.
Prima di lui, in Galilea aveva fatto ritorno almeno una parte dei suoi discepoli: l’evangelo giovanneo li chiama sempre così, non usa (se non una sola volta e in senso critico riguardo alla pretesa autorità conferita dal ruolo – cfr. Gv 13:16) il termine apostoli, non riconosce ai cosiddetti dodici alcuna prerogativa specifica: quella giovannea è una comunità di eguali, senza alcuno che vi primeggi. Il nostro testo fa il nome di alcuni dei presenti: e dietro ciascun nome è racchiuso un simbolo. Anzitutto vi è Simon Pietro, l’apostolo per eccellenza dei vangeli sinottici, che in tutta la vicenda della passione narrata nel quarto vangelo (dal cap. 13 in avanti) è figura dell’incomprensione. Poi viene menzionato Tommaso, detto Didimo, ovvero “gemello”, simbolo del dubbio inestinguibile e in questo, dunque, gemello, anzitutto, di ognuna ed ognuno di noi. Poi si fa il nome di Natanaele, l’israelita elogiato da Gesù che, già nel primo capitolo dell’evangelo, confessa la fede in Gesù come «Figlio di Dio» (cfr. Gv 1:49). Poi, curiosamente, vengono nominati “i figli di Zebedeo”, pescatori menzionati nella tradizione sinottica tra i primi discepoli che Gesù chiama con sé ma che, significativamente, non compaiono nel vangelo giovanneo: e qui si può vedere all’opera la mano di un autore successivo che ha inteso armonizzare la tradizione giovannea e quella sinottica. Infine, vengono menzionati, ma non espressamente nominati, altri due discepoli: di uno dei due scopriremo più avanti l’identità; l’altro, significativamente anonimo, simboleggia la presenza sulla scena di ciascuna e ciascuno di noi che, all’anonimato, può conferire un nome ed una storia.
D’improvviso Simon Pietro comunica ai suoi compagni che si recherà a pescare: e loro si dichiarano immediatamente disposti ad andare con lui.
La pesca, significativamente, si svolge di notte, quando, nel cielo come nei cuori, regna l’oscurità: il risultato, narra il nostro testo, sarà infruttuoso.
In lontananza, non riconosciuta, si profila la sagoma di Gesù, che emerge, non a caso, insieme con le prime luci che giungono a dissipare le tenebre: simbologia costante di tutto l’evangelo giovanneo, nel quale Gesù è sempre connesso alla luce e alla chiarezza che essa porta con sé. Il nostro racconto ci dice immediatamente quale sia il carattere, del tutto peculiare, di questa manifestazione di Gesù: pur mostrandosi, infatti, i suoi non lo riconoscono. Anche questo è un elemento messo costantemente in risalto nel quarto vangelo: i discepoli, dunque noi, faticano sempre a riconoscere Gesù dopo la sua morte e resurrezione, così come faticavano a comprenderne le parole quando egli era ancora in vita. Né Gesù né il suo annuncio, difatti, contrariamente a quanto le chiese hanno sovente predicato e, non di rado, inculcato, abitano l’evidenza, la quale, invece, è uno spazio estraneo all’evangelo, poiché lo contraddice assai più di quanto non lo faccia trasparire. Gesù e l’evangelo, al contrario, si incontrano nel nascondimento, si donano nell’incontro e nell’inatteso e, per ciò stesso, prima di essere conosciuti hanno bisogno di essere ri-conosciuti, ovverosia, come vuole letteralmente il termine, di essere conosciuti ogni volta di nuovo. Gesù non si dà a conoscere nell’immediatezza dell’evidenza, ma si mostra con il volto di chi non conosciamo e che, pertanto, siamo propensi ad ignorare, quando non direttamente a respingere. Gesù chiede a noi discepole e a noi discepoli lo sforzo di operare il riconoscimento, che è quello compiuto da quante e quanti non si accontentano di scorgere il volto di Dio in ciò che già pretendono di conoscere e di aver compreso una volta per tutte.
Vivere la fede significa essere chiamate e chiamati, ogni giorno di nuovo, a compiere il riconoscimento, di Dio come di sé, poiché né Dio né noi ci muoviamo nella dimensione dell’identico, ma ci trasformiamo incessantemente nell’incontro e nella domanda. Ed è proprio con una domanda, infatti, che Gesù si rivolge ai suoi e, dunque, a noi: «Avete del cibo?». Si tratta di un’immagine bellissima, nella quale Gesù chiede a noi se abbiamo di che nutrirlo e di che nutrirci: ma la risposta, lo sappiamo, è un triste e secco «no». Sovente, lo sappiamo, ci affanniamo invano in cerca di un senso al quale crediamo che ci dia diritto di attingere il nostro febbrile affaccendarci; se attendiamo scrupolosamente e infaticabilmente al nostro lavoro, ciò che ci nutre verrà da sé: tacito, inconfessato teorema del calvinismo «puro e duro». Ma i teoremi, si sa, con la fede e con la sua natura flessibile e cangiante, cozzano inevitabilmente. Lo sforzo non sta alla radice del senso che, come tale, non si può estorcere; alla radice sta la disposizione: all’azione, anzitutto, perché è necessario essere intenti a pescare; ma anche all’ascolto e, più ancora, forse, alla novità, vero e proprio spettro di tutte le tradizioni ecclesiastiche, che la rifuggono e la respingono. Gesù, infatti, dà un suggerimento ai suoi e, dunque, a noi: gettate la rete in una direzione diversa. Il nutrimento non è figlio della ripetizione: il senso non ci proviene dal consolidamento delle tradizioni; di qui, tutt’al più, ci proviene la sicurezza, che è ciò di cui, in verità, più andiamo in cerca. L’appello di Gesù, invece, ci chiama ad osare la novità: «Avete sempre gettato in una direzione le vostre reti, ritraendole vuote. Perché, allora, non gettarle altrove? Non ripetete: piuttosto, osate, come ho fatto io. Non attendetevi il plauso: la novità non è mai la benvenuta, specie nella ricerca di quel senso di cui le religioni rivendicano il monopolio».
Troppo spesso concepiamo la fedeltà come ripetizione: Gesù ci invita a comprenderla e a praticarla come innovazione, come ricerca, come audacia; ci invita a guardare e a muoverci in direzioni nuove, a volte persino diametralmente opposte, rispetto a quelle a lungo percorse.
Anche la stanchezza che connota oggi le nostre chiese, che così a lungo hanno fatto e continuano a fare della tradizione il loro baluardo e il loro vanto, è figlia di questa incapacità di osare la novità, senza la quale non soltanto le comunità, ma lo stesso evangelo rischia di svuotarsi, perdendo slancio, colore, calore. Per recuperarli dobbiamo rimanere aperti, con lo sguardo indirizzato e le braccia tese verso l’esterno, verso quel mare che ci nutre e che circonda le barche vuote dei nostri templi: dobbiamo uscire, levare le ancore, prendere il largo, riconoscere che tutto quanto ci alimenta viene da fuori, da quel mondo che, come chiese, non sappiamo più incontrare ma soltanto giudicare. Quel mondo che aspettiamo sempre che giunga sino a noi, senza che sappiamo andargli incontro, non per ammaestrarlo, ma per lasciarcene ammaestrare, provocare, interrogare.
Uno di coloro che hanno osato, «il discepolo che Gesù amava», d’improvviso comprende chi si celi dietro il volto dello sconosciuto: opera il riconoscimento, osa la novità che è figlia di un ascolto autentico, aperto all’inaudito, a quanto prima non si era stati capaci di percepire, a ciò che la ripetizione impedisce di cogliere. Lui è l’ultima figura simbolica del nostro racconto, anche lui senza nome: poiché attende di assumere il volto e la storia di ciascuna e ciascuno di noi, discepole e discepoli di un annuncio che ci chiama a vivere la fede come novità.
Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com