Grazie per la lezione di storia impartitami, persino in ordine all’inquisizione, la quale, però, non nasce durante la Controriforma, ma affonda le sue radici nella decretale Si ad versus vos emanata da papa Innocenzo III nel 1205. Qualora il signor Benfanti nutrisse ancora dei dubbi al riguardo, senza ricorrere a dotti riferimenti bibliografici, potrebbe più semplicemente ripercorrere le pagine del celebre romanzo di Umberto Eco (le sembra abbastanza qualificato in materia di storia medievale?) Il nome della rosa, che all’inquisizione medievale e ai suoi metodi dedica pagine assai istruttive. Quanto al fatto, poi, che la logica inquisitoriale non si sia affatto estinta, sebbene a dimostrarlo basterebbe un intervento come il suo, forse giova ricordare che la Congregazione per la Dottrina della Fede, sebbene abbia provveduto a rivedere i metodi, è tutt’oggi animata da intenzioni del tutto analoghe: l’elenco delle teologhe e dei teologi messi all’indice è difatti lunghissimo. Per quel che mi riguarda, quest’elenco increscioso rappresenta, in verità, un ricchissimo ed imprescindibile riferimento bibliografico: la Congregazione, difatti, mi fornisce, suo malgrado, il migliore aggiornamento possibile circa i testi da leggere con assoluta priorità.
Per sua informazione, caro Benfanti, sappia anche che essere tacciati di disobbedienza è, nel caso specifico, più motivo di vanto che di onta: che vuole, noi eretici siamo fatti così. Sono infatti dell’avviso che, anche e specie in ambito religioso, l’obbedienza cieca abbia prodotto più danni che frutti. Un fratello a me caro (sempre che lei mi autorizzi a definire fratello un uomo che, nominalmente, si riconosceva nella sua stessa confessione), don Milani, ha sostenuto che «l’obbedienza non è più una virtù»: parole sagge e, probabilmente proprio per questo, al contempo profetiche ed inascoltate.
Inoltre, da eretico impenitente qual sono, le comunico che non sento alcun bisogno di redenzione, né personale né comunitaria, se per redenzione si intende (come lei pare intendere) l’esplicita abiura che, sola, potrebbe ricondurre i miei errori entro l’alveo dell’ortodossia dogmaticamente configurata ed istituzionalmente sancita: a lei i suoi fondamenti, che io mi ostino a non voler comprendere (o ai quali non intendo uniformarmi proprio in virtù di un’interpretazione difforme), a me quelli che ho scelti in libertà e coscienza (sempre che tali termini non la indignino oltremodo): l’evangelo e la sua costante, imperfetta realizzazione personale e comunitaria, refrattaria ad ogni diktat e ad ogni imposizione dogmatica.
I discorsi che abbiamo sfiorato entrambi (non mi azzarderei a dire «affrontato») sono senz’altro troppo grandi per me e, da quel che ho potuto constatare, anche per lei: ragion per cui, in linea di principio, sarebbe quanto mai opportuno farne oggetto di dibattito e di confronto, possibilmente sereno. Peccato, però, che a lei il dialogo non interessi e che i toni da lei adoperati impediscano che tale interesse si ridesti anche in me: fortunatamente, a tale riguardo, interlocutori non me ne mancano e, le assicuro, il loro profilo umano e intellettuale non risponde affatto alla descrizione – offensiva, del tutto irrispettosa – che lei ne ha fatta.
Infine, ribadisco il fatto che un dialogo autentico ha quale presupposto irrinunciabile l’uscire dall’anonimato: si tratta, forse, dell’unico presupposto che lei, sia pure debitamente esortato in tal senso, ha finito col rispettare. Credo anch’io, pertanto, che il nostro raffronto (che, a dire il vero, non ha potuto nemmeno prendere avvio) si concluda qui: ma se anche lei, come me, ha tempo da perdere in un dialogo tra sordi, ha tutto il diritto di replicare. Persino, anche se stenterà a crederlo, senza il mio permesso.
Alessandro Esposito – pastore valdese a Trapani e Marsala