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10/06/2013 11:53:58

Etica, misura della fede

Le parabole rappresentano il cuore, spesso dimenticato, dell’evangelo annunciato da Gesù: smarrite da secoli entro i labirinti di infinite quanto sterili dispute dottrinali, noi chiese abbiamo relegato ai margini della fede l’insegnamento di Gesù, per concentrarci quasi esclusivamente sul significato della sua persona, come in particolare abbiamo fatto e continuiamo a fare noi protestanti con la nostra predicazione in tutto e per tutto figlia, in questa sottolineatura pressoché univoca, della teologia dell’apostolo Paolo. Le parabole, invece, sono il luogo in cui Gesù, letteralmente, si defila, indirizzando i nostri sguardi, le nostre menti e, prima ancora, i nostri sensi ad un evangelo che non è teologia dogmatica ma concreto invito a vivere, a osare e ad agire per arrivare ad essere ciò che non siamo mai pienamente: umane ed umani. Oggi, però, più che della parabola in sé, vorrei occuparmi della sua «cornice», ossia del contesto in cui Gesù la racconta. La scena entro cui la nostra narrazione prende vita incomincia dall’esplicita menzione di un personaggio: un dottore della Torah, un uomo a cui veniva riconosciuta preparazione per quel che riguarda quelle «cose divine» che, va da sé, la Torah contiene, ma non trattiene né esaurisce e che, anzi, intreccia inestricabilmente con le vicende umane. Succede spesso, però, che chi viene convinto e, ancor più, finisce col convincersi di intendersi davvero di cose divine, si sente immediatamente in diritto di testare l’ortodossia altrui: niente di sorprendente, succede ancora oggi. Il nostro passo, difatti, chiarisce subito, appena dopo aver presentato il nostro uomo, l’esimio dottore, quali siano le sue intenzioni: lui si trova lì per saggiare le doti di Gesù, di questo maestro di campagna di cui, da qualche tempo, sente parlare.

Dunque, avendolo finalmente a portata di mano, quando gli si rivolge lo fa, dice espressamente il nostro testo, «per metterlo alla prova»: e quale prova migliore che porgergli una domanda che lo costringa ad enunciare pubblicamente il cuore del suo insegnamento? Bisognava verificare, infatti, se si trattasse o meno di un insegnamento conforme alla Torah, ovverosia all’insegnamento per eccellenza; ma, a onor del vero, lo scopo (mai espressamente dichiarato dai guardiani della fede) era quello di verificare che l’interpretazione che della Torah dava Gesù non si discostasse dall’unica autorizzata dall’ortodossia.

Da buon ebreo, il dottore sa che al centro di una fede autentica sta l’azione: e su questa interroga il sedicente maestro galileo, chiedendogli che cosa sia necessario fare. Come spesso avviene, però, noi traduciamo in maniera estremamente approssimativa molti dei termini e delle espressioni che i vangeli riportano: oggi ci imbatteremo in diversi di questi esempi.

Il primo lo troviamo già nella domanda del nostro dottore, il quale, propriamente, chiede a Gesù: «Che cosa devo fare per avere vita senza fine?». Espressione che noi rendiamo con l’astratto e, in fin dei conti, alienante «vita eterna», lasciando supporre, in questo modo, che si tratti di una questione successiva alla nostra morte. Ma l’ebraismo, a cui Gesù stesso aderì con l’anima e con le viscere durante tutto il corso della sua vita, è in verità un pensiero molto terreno ed estremamente concreto: per cui, quando nella cultura ebraica si parla di vita «senza fine», ci si riferisce a questa vita e non ad una successiva. Il dottore sta dunque domandando a Gesù in che modo sia possibile rendere questa nostra vita generatrice di altra vita, ben al di là di una pura sopravvivenza personale.

Si tratta, senza dubbio, di una questione di estrema attualità, che pure abbiamo inspiegabilmente smesso di porci. Dunque: come generare vita dalla nostra vita, di modo che la vita, infinitamente più grande di noi, non abbia fine? Così vorrei provare a tradurre la domanda che il nostro dottore rivolge a Gesù. A questo punto, anziché rispondergli, Gesù provvede immediatamente a ristabilire i ruoli. Sembra dirgli: «In fin dei conti, fino a prova contraria, il maestro sei tu. Ebbene: che cosa è scritto in quella Torah che i tuoi studi e i sacerdoti ti autorizzano ad insegnare?».

La domanda più acuta, però, Gesù gliela rivolge in seconda battuta: «Come leggi?». Può sembrare il prosieguo della prima domanda, ma non lo è. Qui Gesù sta ponendo l’interrogativo fondamentale, quello che l’ortodossia non si pone mai, perché ritiene di avervi già risposto una volta per tutte e, come se non bastasse, di averlo fatto anche a nome di chiunque si ponga questa domanda: «Come leggi tu?». Già: perché un conto è ciò che sta scritto; altra cosa è come lo leggi. E a me, Gesù, interessa capire come lo leggi tu: che poi, per Gesù, non vuol dire appena come lo interpreti, ma come lo vivi, come lo pratichi. Il dottore, però, da buon accademico, risponde citando a menadito le scritture, quelle in cui ha profuso anni di studio: e ripete il versetto capitale del libro che la tradizione cristiana ha ribattezzato Deuteronomio e che l’ebraismo, che questo libro lo ha partorito e che dovrebbe dunque avere il diritto di affidare il nome alla creatura del suo pensiero, chiama Devarim, che in ebraico significa «Parole», ma anche «Fatti». Quelle riportate, difatti, sono le prime delle cosiddette dieci parole/azioni che, secondo la tradizione ebraica, Dio ha affidato al suo popolo come un compito.

Poi noi abbiamo provveduto a conferire loro una sorta di significato militare, chiamandole comandamenti: ma la tradizione ebraica ignora questo termine e parla invece, assai più concretamente, di parole che acquisiscono un valore e un senso soltanto se si traducono in azioni, in fatti. Peccato che il dottore, tanto attento alle parole, dimentichi i fatti. Dopo la sua risposta, naturalmente inappuntabile, Gesù difatti replica: «Hai risposto rettamente», e usa, rivolgendogli queste parole, il termine orthòs, che è anche quello usato per definire una tesi ortodossa, ovverosia formalmente ineccepibile, perché espressione di una corretta (orthòs) opinione (doxa). Peccato, però, che l’opinione valga poco: o meglio, vale se poi si è conseguenti nell’agire; diversamente, l’opinione corretta costituisce, per così dire, un’aggravante, poiché si sa che cosa è giusto ma non lo si fa. Difatti, conclude Gesù rivolto al dottore: «Fa’ questo e vivrai», ossia, fallo e avrai vita, e potrai dire davvero di aver vissuto.

Qui l’accenno all’eternità tanto caro alle cattive traduzioni è del tutto assente: a Gesù basta porre l’accento sulla vita, quella presente, quotidiana, la quale ha valore di per sé, senza alcun bisogno di determinazioni o di proiezioni nel tempo.

Nell’ultima parte del versetto citato dal dottore, compare qualcuno che sembra compromettere l’assolutismo di Dio, quello infaticabilmente predicato dai pii benpensanti di ogni epoca: accanto a Lui, difatti, emerge imprevisto, non richiesto, questo ignoto «vicino», termine un po’ più esplicito, perché più usuale, dell’inflazionato quanto dimenticato nel suo senso più proprio «prossimo».

Già: perché nel versetto, insieme con Dio, viene chiesto di amare anche lui, il vicino, questo sconosciuto; e mentre per l’amore da rivolgere a Dio vengono riportate delle specifiche, di quello verso il vicino vengono dette soltanto poche, lapidarie, imbarazzanti parole: lo amerai come te stesso. Impegnativo, non c’è che dire: sia per quel che concerne il vicino, sia per quanto riguarda se stessi, perché, se uno si conosce appena un poco, amarsi non risulta certo un sentimento spontaneo. Si tratta di un triplice, inestricabile impegno d’amore: verso Dio, verso sé e verso il vicino. L’interconnessione tra questi poli è così profonda che, venendo a mancare uno soltanto di essi, gli altri due risultano irrimediabilmente pregiudicati. Ma l’amore di sé, sia pure inteso nel senso meno nobile, non difetta certo al nostro dottore; né, ci guardiamo bene dal sospettarlo, l’amore zelante per Dio: il problema, per lui come per noi, è senza alcun dubbio il vicino.

Ecco perché il nostro passo, prima di introdurre la sua domanda, specifica il fatto che il dottore la rivolga a Gesù «per volersi giustificare»: di che cosa? Probabilmente del fatto di aver sempre tralasciato, in tanti anni di studi e certamente con il nobile e santo scopo di non sottrarre spazio a Dio, la seconda parte del versetto, l’ingombrante vicino. Che è poi lo stesso, ingombrante assente delle teologie ecclesiastiche tradizionali, in cui il vicino compare, se compare, come un elemento del tutto accessorio.

Quindi, la domanda: quella che costituisce, in verità, l’alibi, anche il nostro: «E chi è mio vicino?». Oggi non voglio soffermarmi sui particolari della storia narrata da Gesù, che abbiamo già approfondito nel corso di altri incontri e di precedenti riflessioni svolte insieme.

Vorrei invece passare alle conclusioni a cui Gesù, attraverso il racconto, conduce il suo interlocutore, facendogliele prima comprendere e poi affermare: e qui sta l’autentico valore di una fede, la quale o è a misura dell’etica, ovverosia di un modo di agire e di essere, o non è. L’etica, infatti, a differenza di quanto ci hanno a lungo insegnato della fede, per essere vissuta e realizzata va prima compresa: se l’etica, dunque, tornasse ad essere, come era per Gesù, misura della fede, al centro dell’evangelo che annunciamo vi sarebbe finalmente la consapevolezza e, pertanto, la responsabilità. E la responsabilità soltanto ci rende adulte e adulti nella fede, consentendoci l’uscita da quello che il filosofo Immanuel Kant definiva lo «stato di minorità» entro il quale troppe chiese, ancora, mostrano di avere tutto l’interesse di mantenere i propri fedeli, perché una fede infantile consente il controllo delle coscienze. Le affermazioni formalmente corrette, in definitiva, posseggono un valore estremamente relativo: la fede non è contenuta in esse, né può nascere dalla perfetta aderenza ad un contenuto teorico. La fede, se è qualcosa di vivo, è chiamata ad agire, a farsi carne, gesto, vita che genera altra vita, come senza troppi fronzoli fa il samaritano, lo straniero, il vicino che si credeva lontano, l’ultimo da cui ci saremmo attesi attenzione e soccorso.

La cosa più bella sta nel motivo che sostanzia il gesto di chi si fa vicino: già, perché la vicinanza va creata, è anch’essa un gesto, non una condizione. Il sacerdote e il levita, infatti, vivono l’esperienza di una «vicinanza incompiuta»: pur incontrandola come possibilità lungo i rispettivi cammini non la realizzano; anzi, di una possibile vicinanza fanno un’occasione di palese distanziamento.

Il samaritano, al contrario, si fa vicino perché - dice il dottore rispondendo a Gesù - lascia che lo sconosciuto riverso al suolo moribondo, anziché restargli indifferente, come era accaduto agli sguardi e al cuore dei due religiosi passati di là prima di lui, gli «laceri l’animo». Questo dice letteralmente il nostro testo con un’espressione toccante e, una volta ancora, tradotta solitamente dalle nostre bibbie in maniera approssimativa con il termine compassione che, sebbene formalmente corretto, evoca un atteggiamento di commiserazione. Il coinvolgimento viscerale che muove all’azione è invece l’esperienza di cui narra la parabola.

Quella visione sconcerta il samaritano, è un taglio sul vivo, lo riguarda: c’è anche lui a terra, sul ciglio della strada; e c’è anche Dio. Il samaritano ha lasciato che la situazione dello sconosciuto gli smuovesse le viscere e, in questo modo soltanto, venisse a scuoterlo dal suo torpore.

Ed è a questo lasciarsi interpellare nel profondo, a questa capacità di scuotersi di fronte all’altro che Gesù si riferisce quando, a chi gli aveva chiesto vita senza fine, risponde, dicendolo anche a noi, alle nostre fedi forse esatte ma vuote, perché mancanti del gesto e della lacerazione che è capace di generarlo: «Sei in cerca del senso? La radice del senso, della vita come di una fede che dalla vita non intenda distanziarsi fino al punto di arrivare a divorziare da lei, è custodita nel gesto assai più che nelle parole. Pertanto, va’: e anche tu fa’ lo stesso»  

Domenica 9 Giugno 2013 – Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com