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22/08/2013 06:02:00

Cristiani, cioè ebrei messianici

Il brano incomincia presentando Apollo, un ebreo nato ad Alessandria d’Egitto: in questa città è presente da secoli una comunità ebraica, all’interno della quale era stata portata a termine la più antica e completa traduzione delle scritture ebraiche in lingua greca, quella che, convenzionalmente, denominiamo Settanta, poiché, secondo una tradizione leggendaria, fu compiuta da settantadue saggi versati nelle due lingue. Leggende a parte, Alessandria rappresentava l’esempio riuscito di quel dialogo, estremamente complesso ma proprio per questo arricchente, tra la cultura ebraica e quella cosiddetta ellenistica: questi due mondi non erano visti in contrapposizione ma, per così dire, in armonica tensione. Il risultato che si produsse fu quello di un ebraismo aperto, assai meno rigido di quello sviluppatosi attorno al tempio di Gerusalemme e più permeabile alle istanze di riforma che ogni contaminazione culturale (giova ancora oggi ricordarlo) sollecita. Una prova indiretta di questo «meticciato», che rigetta fermamente ogni impostazione identitaria fondamentalista, ci viene fornita dal nome del nostro protagonista, un ebreo che, senza alcuno scandalo, si chiama come una divinità del pantheon greco.

Come era comune in queste grandi capitali del mondo antico, Apollo era un uomo assai istruito: aveva con ogni probabilità avuto accesso ad una formazione vasta, che includeva la conoscenza delle scritture ebraiche. Poiché all’epoca era tutt’altro che inconsueto spostarsi da un porto all’altro del Mediterraneo, Apollo giunge ad Efeso, sulla costa occidentale dell’attuale Turchia, città all’epoca appartenente all’universo culturale e linguistico greco, luogo di commercio e di scambio, anche di idee.

Non sappiamo esattamente come, ma quest’uomo, a quanto ci dice il testo, conosceva con una certa precisione la vicenda di Gesù e il contenuto del suo annuncio. Seguendo il metodo di tutti i discepoli, Apollo si recò, com’era ovvio per lui, presso la sinagoga, ovverosia la comunità ebraica di Efeso: era la stessa cosa che faceva Paolo ogniqualvolta giungeva in una città dell’Egeo, fosse essa sulla sponda greca del mare o su quella turca.

La cosa non deve stupirci: tutti i primi discepoli, infatti, incluso Paolo ed Apollo, erano di religione ebraica; pertanto era naturale che si recassero presso i luoghi di riunione a loro più familiari. Fu soltanto in seguito che Paolo si recò presso i «pagani» che, a seconda dei casi, accolsero il suo messaggio o lo respinsero. Ma inizialmente l’annuncio dell’evangelo proclamato da Gesù fu portato là dove poteva essere inteso meglio, in seno a quelle assemblee del popolo ebraico presso cui lo stesso Gesù, nel corso della sua attività pubblica, si era recato più volte. Dobbiamo infatti tenere presente che, nell’arco del primo secolo dell’era volgare, il territorio dell’impero romano era disseminato di comunità ebraiche, all’interno delle quali, spesso, le scritture erano commentate in lingua greca. Anche in questo caso, come è ovvio che sia, i risultati ottenuti da chi, come Paolo ed Apollo, provò a portare l’annuncio dell’evangelo di Gesù, furono alterni: alcuni condivisero lo spirito ed i contenuti di questo annuncio, altri, del tutto legittimamente, li respinsero. Ma, poiché lo stesso Gesù non fece altro che inserirsi nel solco della tradizione ebraica, in particolare di quella profetica, che interpretava le scritture in senso fortemente sociale assai più che religioso, su quale punto si accesero le discussioni e si generarono le distanze prima e le spaccature poi in seno alle comunità ebraiche?

Stando a quanto ci dice il nostro testo, il punto di contrasto fu fondamentalmente uno: confessare Gesù di Nazareth come il cristo, il messia promesso dalle scritture. Questo fu il nodo su cui l’ebraismo prese a spaccarsi, incominciando a dividersi in un ebraismo messianico e in uno non messianico che, successivamente alla distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 e.v., divenne l’ebraismo rabbinico, di stampo farisaico. Inizialmente, in definitiva, eravamo tutti ebrei: ciò che, progressivamente, condusse il movimento cristiano al di fuori dell’ebraismo di cui esso non rappresentava che una corrente, fu la confessione di Gesù come messia. Quest’ultima, come sottolinea il nostro testo, prendeva le mosse da un’interpretazione delle scritture: con ogni probabilità Apollo rileggeva, attraverso la vicenda di Gesù, le parole di Isaia che dipingevano il messia come servo sofferente, emblema di un messianesimo che rifiutava i toni trionfalistici, prediligendo la via, sempre rischiosa ma più convincente perché meno conveniente per chi decide di percorrerla, della fede intesa come paradosso e ribaltamento. Apollo, da buon ebreo, interpretava le scritture e proponeva la sua rilettura in sinagoga, esponendola al dibattito pubblico: questo fu l’inizio di ciò che, in origine, era un movimento minoritario sorto in seno all’ebraismo, ancora avvezzo alla discussione e aperto al dibattito, estraneo a quelle dinamiche di irrigidimento dogmatico che codificheranno la fede ecclesiastica ed imperiale nel corso dei concili di Nicea (325 e.v.), Costantinopoli (381e.v.) e Calcedonia (451 e.v.).

Il cristianesimo nasce come movimento di dissenso che sa argomentare le proprie interpretazioni ed esporle al confronto serrato e fecondo della critica. Bei tempi, non c’è che dire. La cultura di Apollo e la sua libertà interpretativa erano considerate una ricchezza, non un limite: il suo spaziare tra le scritture mostrando e mai dimostrando, argomentando e mai asserendo con arrogante e insindacabile sicurezza, era una dote apprezzata e non un motivo di disappunto.

Questa estrema duttilità, questo spirito aperto benché o forse proprio perché passionale, come mette in evidenza il testo, Apollo lo mette in luce quando, senza dar mostra di alcuna presuntuosa saccenza, lascia che Priscilla e Aquila lo istruiscano con maggiore dovizia su quella che all’epoca, in maniera estremamente significativa, veniva chiamata semplicemente la via. «Quelli della via» erano infatti chiamati gli uomini e le donne che avevano deciso di abbracciare l’annuncio del profeta di Nazareth (così vengono denominati per la prima volta in Antiochia, secondo Atti 9:2), che si poteva solamente seguire nella concretezza del cammino e non nella vuota professione verbale. Non vi era altra confessione che il discepolato: le formule non avevano ancora imprigionato la fede nelle loro rigide e pretenziosamente esaustive codificazioni. Chi crede si trova in cammino, lungi dall’aver compreso una volta per tutte il cuore di un messaggio che si traduce e si incarna nella prassi e non nell’ortodossia del dogma.

A questo proposito vi è un’ultima, significativa notazione: Apollo mostra di conoscere un’unica prassi battesimale, che è quella di Giovanni il Battista, il quale predicava un battesimo di cambiamento di mentalità (così traduco il termine greco metánoia che ricorre nelle narrazioni sinottiche) che, soltanto, può provocare la trasformazione degli atteggiamenti. Si tratta del battesimo che anche Gesù - che non lo amministrò mai e men che meno nel suo nome - ricevette per mano dello stesso Giovanni.

Una volta ancora: abbracciare la via significa trasformazione radicale, in altre parole, rivoluzione. Se ciò non avviene il messaggio evangelico viene non soltanto depotenziato, ma del tutto snaturato, tramutato, come poi difatti è avvenuto, in litania vuota e accomodante, che non fa appello ad alcun coinvolgimento personale attivo e responsabile.

Nei tempi remoti delle origini cristiane, vi erano ebrei dissidenti che annunciavano la necessità e l’urgenza di un cambiamento di mentalità simboleggiato da un’immersione non ancora sancita da formule ma intrisa, come ogni simbolo, di significato: letto così ha tutta l’aria di essere un messaggio ancora attuale. Peccato che siano rimasti in pochissimi a viverlo e, perciò soltanto, ad annunciarlo.

Domenica 11 Agosto – pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com