Abbastanza presto, secondo ciò che racconta il testo degli Atti, in seno alla comunità nascente si costituisce un ristretto gruppo che ne assume il coordinamento e che, lentamente, assurge ad un ruolo di esercizio dell’autorità, che non tutti accetteranno di buon grado. Il gruppo è quello dei cosiddetti «apostoli», costituito da dodici uomini, tutti maschi, che erano stati insieme con Gesù durante la sua attività di profeta itinerante del Regno. Costoro, secondo il racconto degli Atti, vengono trovati nel tempio ad insegnare e, per ciò stesso, condotti dinanzi al sinedrio, l’autorità religiosa del giudaismo ortodosso, un’assemblea costituita, a quanto sembra, da aristocratici e proprietari terrieri, appartenenti ai principali gruppi di potere, sadducei, farisei, scribi. Chi detiene il potere, da che mondo è mondo, mette in atto tutte le strategie per consolidarlo e in nessun modo può accettare di essere contraddetto: chi comanda impartisce ordini e pretende che gli si presti cieca obbedienza. Questo vale in politica come nella religione: figuriamoci quando a detenere il potere politico è la classe religiosa. I guardiani del tempio e della tradizione, dunque, capeggiati dal sommo sacerdote, danno inizio ad un vero e proprio interrogatorio: e l’inizio, per l’appunto, non può che richiamare alla mente l’ordine impartito: «Non vi avevamo comandato di non insegnare nel nome di costui?». È l’intramontabile illusione, piena di arroganza, di chi comanda e non prevede la possibilità della disobbedienza: noi abbiamo impartito un ordine, non è ammessa alcuna replica. Il sommo sacerdote continua constatando che Gerusalemme è piena ormai dell’insegnamento degli apostoli e lancia la sua accusa: «Volete far ricadere su di noi (ovverosia sul sinedrio) il sangue di quell’uomo».
Anche in questa circostanza, così come in quella precedente, il sommo sacerdote si rifiuta di fare esplicitamente il nome di Gesù: tipico atteggiamento di chi ignora la storia, il volto e il nome di chi ha ucciso, poiché, in ultima istanza, gli è del tutto indifferente. Il timore, dunque, è di essere accusati dell’assassinio di un profeta che, a quanto pare, è ancora amato dal popolo: si tratta di un rischio da scongiurare, onde evitare malcontento e ribellioni. Eppure gli apostoli, capeggiati da Pietro, affrontano il sommo sacerdote ed il suo interrogatorio senza timori reverenziali. La risposta che gli forniscono è di una chiarezza adamantina: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che a degli uomini». Per noi in particolare si tratta di parole indelebili, perché, a quanto attestano le fonti, sono le stesse che Valdo rivolse al suo inquisitore. Inutile dire che, come sempre, il tradimento di questo spirito di libertà è sempre dietro l’angolo: presto la Riforma redigerà le prime confessioni di fede e pronuncerà anch’essa i suoi verdetti di eresia; e gli stessi apostoli, che qui vengono presentati come i paladini della libertà di una fede che obbedisce a Dio soltanto, impartiranno ordini ai diaconi, che li disattenderanno per la medesima ragione. Tutto, difatti, dipende dalla posizione che si riveste: un conto è essere perseguitati (come all’inizio lo erano sia gli apostoli che i valdesi), un altro è assurgere ad un ruolo di preminenza, per piccolo che sia. Chi organizza il movimento, spesso, è anche chi ne reprime la carica innovatrice: il dubbio, per quel che mi riguarda, è che cosa sopravviva della causa originaria ogniqualvolta si cerchi di istituzionalizzarla. Avviene con ogni fenomeno storico: dunque, anche con l’annuncio e la pratica dell’evangelo.
Ad ogni modo gli apostoli, nella versione romanzata degli Atti, mostrano coraggio e ribadiscono l’accusa: sì, siete stati voi del sinedrio a mettere a morte Gesù (loro il nome lo menzionano). E Gesù è colui che il Dio dei nostri padri (sia nostri che vostri, stanno dicendo gli apostoli al sinedrio) ha resuscitato: ovverosia, perché il messaggio va tradotto per essere compreso nella sua carica dirompente, Dio ha rialzato un profeta che il potere religioso ha perseguitato, contrastato, condannato e ucciso. Non certo parole gradite a chi sta conducendo l’interrogatorio. La relazione del sinedrio, difatti, non si fa attendere: così come era avvenuto per il maestro di questi rozzi galilei, contadini e pescatori che si improvvisano esperti di scritture sacre, la sentenza è scritta: siano messi a morte. Ecco che però, persino in seno al sinedrio, capita che siedano uomini saggi e prudenti: Gamaliele, un fariseo, chiede che gli apostoli vengano condotti fuori per qualche istante e mette in guardia quell’assemblea di notabili. L’argomentazione a cui ricorre è interessante e, a ben guardare, estremamente pericolosa e tutt’oggi molto diffusa, specie negli ambienti più integralisti: lasciateli fare. Se si tratta di un’impresa umana, fallirà; ma se c’è Dio dietro i loro intenti, allora è inutile opporvisi. Una sorta di fatalismo, che giudica le imprese umane a partire dal loro successo: Dio sta nella riuscita dell’impresa. Dove c’è il fallimento c’è l’uomo, con la sua protervia; dove c’è il risultato, là c’è Dio. Dunque: fate attenzione a non mettervi contro Dio. Classica argomentazione, questa, di chi intende sottrarre il proprio convincimento alla discussione e, dunque, al confronto e alla possibilità di approfondimento e, perché no, di cambiamento.
Dio sta con chi si afferma nella storia: è la più pericolosa – perché la più creduta – delle menzogne. È la logica di chi sottrae il dogma alla discussione, portando come argomento ciò che argomento non è, il fatto che una determinata interpretazione della fede si è affermata nella storia, a detrimento di altre. È un discorso pericoloso, perché mina la libertà di ricerca e di espressione; ma, bisogna riconoscerlo, è anche un discorso conveniente per chi ha visto affermare nella storia il proprio modo di intendere la fede. Se questo, poi, è avvenuto a suon di violente imposizioni, poco importa.
I guardiani dell’ortodossia, manco a dirlo, si lasciano convincere da questa argomentazione e recedono dai loro propositi: fanno percuotere gli apostoli, intimano loro nuovamente di non parlare nel nome di Gesù e li rilasciano. La reazione degli apostoli è estremamente significativa: si rallegrano della persecuzione subita «a motivo del nome» (di Gesù).
In modo del tutto evidente, si tratta di un messaggio di incoraggiamento, rivolto a quante e quanti, a causa della fede in Gesù di Nazareth come messia, subiscono quotidianamente vessazioni e persecuzioni, specie da parte di quelle autorità religiose che, con tutta evidenza, intendono estirpare dalle assemblee quella che ritengono essere un’assurda e pericolosa (perché anticonformista) eresia. Eppure, fieri nella loro disobbedienza e incuranti del pericolo al quale si espongono, gli apostoli tornano ad annunciare la buona novella, persino nel tempio, ovverosia, potremmo dire, nella bocca del leone, nel luogo in cui era più facile incorrere nella punizione del sinedrio.
Di fronte a questa determinazione e a questo coraggio, mi sono domandato se, sulla tiepidezza del nostro annuncio, non incida sensibilmente la condizione di privilegio in cui ci troviamo: ovverosia, se il fatto di vivere nell’assoluta tranquillità quella che chiamiamo fede e che altro non è che una placida conduzione dell’esistenza entro schemi consolidati e convincimenti prestabiliti non finisca per confinarci nel torpore dell’assuefazione, come succede con l’eccessivo consumo di sonniferi. Non credo che ci possano essere molti dubbi, al riguardo: la nostra fede è sonnecchiante, abitudinaria, intellettualmente definita e praticamente ininfluente. Non ci smuove granché nell’intimo, non mette in gioco parti costitutive del nostro essere, figuriamoci la vita stessa. È diventata un’appendice la fede, una questione di second’ordine: e chi si ostina a difenderne l’importanza, lo fa arroccandosi su posizioni ottuse, medievali. Possibile che non ci sia alternativa tra la sostanziale indifferenza e il fondamentalismo arrembante? Siamo condannati al piattume di questa falsa contrapposizione?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo andare al cuore della questione: che cos’è esattamente questa «buona novella» per la quale i primi discepoli erano disposti persino a mettere a repentaglio la propria vita? Doveva trattarsi di qualcosa di grosso, di qualcosa per cui valesse la pena di mettere in gioco tutta l’esistenza, perché la sua presenza determinava il senso stesso di una vita. È ciò che, fino a qualche decennio fa, si sarebbe chiamata una «causa» o, per meglio dire, la causa, quella per cui vale la pena vivere e senza la quale la vita perde il suo senso.
Si tratta di ciò che la nostra generazione, che ha vissuto il collasso delle ideologie in cui hanno creduto le nostre madri e i nostri padri, non conosce più: la nostra è la generazione del disincanto, quella che ha sperimentato l’illusorietà dei grandi ideali, senza però riuscire a sostituirli. La nostra è la generazione dello smarrimento, chiamata all’impresa titanica di sopravvivere alla scomparsa di ogni orizzonte di senso. In questo, credo, il cristianesimo tradizionale ha le sue responsabilità, poiché non ha ancora elaborato la fine di un modo di vivere, di pensare e di credere e, senza educare le generazioni presenti e future a fare i conti con il mutamento profondo che ha investito ogni dimensione dell’esistenza e del sentimento, preferisce continuare ad illuderle e ad illudersi.
Nella teologia ecclesiastica tradizionale, la buona novella del cristo Gesù è stata interpretata secondo uno solo dei significati di questa espressione, che ha finito per soppiantare ed escludere del tutto l’altro. Provo a spiegarmi meglio. La buona novella di Gesù, con il riferimento alla quale termina il nostro passo, può essere intesa in due sensi: o come la novella che parla di Gesù, oppure come la notizia che Gesù annunciava. Per tanto, troppo tempo, le chiese hanno rimarcato in maniera pressoché esclusiva la prima di queste due accezioni: e la buona novella si è lentamente svuotata di attualità, è stata privata della sua dimensione pratica, del suo appello al cambiamento rivolto in maniera personale e responsabile. Se la buona notizia torna ad essere quella annunciata da Gesù, oltre a quella che si limita a parlare di Gesù come di un evento nevralgico ma comunque trascorso, allora l’evangelo può tornare a dire qualcosa.
Persino la nostra, che è la generazione del disincanto, nell’annuncio che «un altro mondo è possibile» può ritrovare parte del senso smarrito, perché, in definitiva, senso non è altro che la direzione impressa ai propria passi, scopo da conferire ai propri gesti e al modo in cui si decide di spendere la propria vita. L’evangelo che Gesù ha annunciato e vissuto ha molto a che vedere con questo: il fatto che le chiese lo abbiano confinato entro l’angusto perimetro di un messaggio consolatorio lo ha progressivamente privato dei suoi elementi di stimolo e di novità, della sua carica eversiva, della sua capacità di coinvolgimento attivo, personale, perennemente attuale. L’evangelo che Gesù ha vissuto ed annunciato e al quale invita chi intende camminare nel solco che egli ha tracciato è un compito infinito, che attende ogni generazione: si tratta di riportarlo alla luce, riesumandolo da quei sepolcri in cui, per troppo tempo, le chiese lo hanno lasciato sepolto nell’immobilità di una fede sempre uguale a se stessa perché con lo sguardo perennemente rivolto all’indietro.
Domenica 15 settembre 2013 – pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com