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29/10/2013 12:10:00

Paolo di Tarso, libero e intransigente

«Avete udito certamente della mia condotta, un tempo, nel giudaismo: di come con eccesso perseguitavo la chiesa di Dio e la devastavo e progredivo nel giudaismo più di molti coetanei nella mia stirpe, essendo molto più zelante dei miei padri nelle tradizioni. Quando poi piacque a Dio, che mi aveva separato dal ventre di mia madre e chiamato per mezzo della Sua grazia a rivelare Suo figlio in me, per annunciare la lieta notizia, lui, alle nazioni, subito non chiesi consiglio a carne e a sangue, né salii a Gerusalemme da coloro prima di me inviati: partii invece per l’Arabia e tornai nuovamente a Damasco» (Galati 1:13-17)

L’apostolo Paolo, è risaputo, appare come un uomo dal carattere forte e spigoloso, che gli ha procurato, nel tempo, simpatie genuine ed antipatie viscerali. È chiaro che con questi sentimenti spesso superficiali non si fa esegesi, né predicazione: bisogna cercare di andare al di là di queste prime sensazioni, senza ignorarle, ma dimostrandosi disposti a ridiscuterle e, prima ancora, ad analizzarne, per quanto possibile, le cause. La mia distanza personale dall’elaborazione teologica dell’apostolo Paolo è nota, non ne ho mai fatto mistero: grazie al cammino svolto insieme con voi in questi anni ed alla meditazione delle sue epistole, però, vorrei provare oggi a «correggere il tiro», almeno parzialmente. Prima di passare alla disamina più approfondita del nostro testo, vorrei svolgere due riflessioni preliminari, determinanti al fine di chiarire quale sia il modo che ritengo più corretto per accostarsi alle parole dell’apostolo, spesso gravate del peso di secoli di teologia, soprattutto protestante. Senza nulla togliere all’importanza della tradizione, vorrei infatti distinguerla dal testo biblico.

Quest’ultimo, dunque, va considerato tenendo presenti due aspetti:

  • Anzitutto, dell’apostolo Paolo ci sono giunte soltanto alcune lettere indirizzate alle prime comunità cristiane dell’area greca, che allora comprendeva anche la costa egea dell’attuale Turchia. In queste epistole Paolo polemizza spesso con qualcuno di cui non condivide la predicazione e la teologia che la sostanzia: per cui, sovente, il suo tono appare un po’ «sopra le righe». Oltretutto, fatto non trascurabile, noi non conosciamo se non attraverso il resoconto fornitoci dell’apostolo le posizioni sostenute da quanti egli critica, spesso con asprezza: il che ci impedisce di avere un quadro preciso ed obiettivo della situazione da lui descritta in maniera inevitabilmente parziale, perché prospettica e figlia del coinvolgimento diretto.
  • In secondo luogo, le epistole paoline mettono in luce il fatto che l’apostolo visse, come è naturale che sia, diverse metamorfosi nella sua fede, la quale, non dovremmo mai dimenticarlo, è esperienza viva e dunque mutevole, non acquisizione di contenuti invariabili.
  • Questi due aspetti, visone prospettica e partecipata e fede come esperienza, sono stati spesso trascurati dalla teologia tradizionale protestante, che considera Paolo alla stregua di un teologo sistematico che effettua riguardo a Dio affermazioni dogmatiche granitiche, che le chiese dovrebbero limitarsi ad accogliere e a riproporre in maniera letterale. Ma sono proprio questi due aspetti a connotare il nostro passo di oggi, in cui Paolo, in maniera schietta ed estremamente significativa, racconta di sé. Ascoltiamolo, dunque, e vediamo che cosa ha da dirci.

    L’inizio è di una brutalità sconcertante: senza fronzoli né infingimenti, Polo descrive il proprio passato di persecutore dei primi discepoli di Gesù. Non nasconde nulla, Paolo, non cerca patetiche giustificazioni: certo, la sua cattiva fama doveva precederlo; ma comunque non si affanna nel dare spiegazioni tese a salvaguardare la sua reputazione, poiché, come specifica pochi versetti prima, non cerca di «piacere agli uomini». Questo atteggiamento rende più comprensibile, ma anche, almeno da parte mia, più apprezzabile quell’antipatia che l’apostolo suscitava e suscita: non indossa maschere, è così come appare, con pregi e difetti. Ha perseguitato quel cristo che oggi annuncia: non nasconde la verità, perché questa sua metamorfosi radicale, questo cambiamento di mentalità che noi traduciamo con il termine conversione, testimonia dell’azione di Dio nella sua vita. Paolo è cambiato: ed il cambiamento non è avvenuto secondo la sua volontà, ma perché Dio, in maniera del tutto inattesa, gli ha aperto gli occhi, inviandolo presso coloro che l’apostolo aveva a lungo perseguitati e che, almeno inizialmente, non potevano che guardare a lui e a questa improvvisa e imprevista trasformazione con diffidenza. Paolo non nega, gioca a carte scoperte: «Sì, avete udito bene. Le voci su di me affermano il vero: io ho perseguitato Gesù e la sua chiesa. Ma Dio ha scelto me, un persecutore, per recare la lieta notizia alle nazioni».

    Qui viene un punto estremamente interessante: la lieta notizia, poiché così del resto è avvenuto nella sua vita stravolta dall’incontro con la vittima, è Gesù, la sua persona. In Paolo non troviamo mai l’annuncio di un Regno di pace e di giustizia, fondamentale nella predicazione di Gesù: in Paolo la buona novella è Gesù stesso.

    Questo aspetto innovativo e per molti aspetti nevralgico, è divenuto, prima in Paolo e poi nelle chiese, univoco: non si predica più il Regno e la sua giustizia (che secondo Gesù erano l’unica cosa da cercare, come ricorda Matteo nel «discorso della montagna» - 6:33 -), ma la persona di Gesù e la sua portata salvifica. Soltanto che, mentre per Paolo tutto ciò stava a significare un incontro concreto che ha letteralmente invertito la direzione dei suoi passi, facendo di un persecutore un inviato, per noi oggi questa espressione si è per lo più condensata in una formula astratta, che non impegna il nostro essere e non trasforma la nostra esistenza.

    Paolo, interiormente rigenerato dall’esperienza dell’incontro con il risorto, ne farà comprensibilmente il centro del suo annuncio. Peccato che l’assolutizzazione del suo vissuto lo porterà a maturare una concezione della fede che a tratti, nelle sue lettere, si rivela estremamente rigida. Non di rado, infatti, Paolo demonizza i suoi avversari, scaglia contro di loro anatemi ed arriva persino a chiamarli «cani» (Filippesi 3:2). Ecco perché, riflettendo sui brevi versetti di oggi, nutro il sospetto che Paolo, pur avendo abbandonato il giudaismo ortodosso, ne ha mantenuto per molti versi la logica. In questo, credo, Paolo non ha fatto onestamente i conti con il proprio passato: ha creduto che la conversione sperimentata con ardore ed entusiasmo avesse debellato del tutto il suo vecchio io, la sua precedente identità. È un’idea ancora oggi assi diffusa negli ambienti fondamentalisti: la conversione consente di chiudere i conti con il proprio passato. Peccato, però, che se questi conti non li ho fatti, non posso credere che tutto ciò che ero si cancelli con un colpo di spugna. Ciò che sono stato per lungo tempo, difatti, non può scomparire come d’incanto.

    Paolo ha un passato da guardiano della fede, inflessibile d irreprensibile: parte di questo suo modo di credere e di pensare lo trasporterà, suo malgrado, in una fede nuova che veste abiti vecchi. Nuovo è il contenuto del suo annuncio, vecchi risultano i toni e le modalità con cui l’apostolo lo incarna. Paolo aveva interiorizzato una rigidità che manterrà ivariata: la sua intransigenza, da convertito, è la stessa che caratterizzava la sua fede giudaica. E, come spesso accade, sarà proprio la sua antica appartenenza quella contro cui l’apostolo si scaglierà con maggiore veemenza e rancore. Crederà di trovarsi al di là di ciò che era stato: ma l’identità è un processo di anni, che finisce per contraddistinguerci senza che sia possibile lasciarla alle spalle con una svolta, per quanto radicale. Ecco perché il Paolo trasformato continua, per certi aspetti, ad essere estremamente simile al Paolo rigoroso e zelante nell’interpretazione legalistica del giudaismo.

    Persino l’azione di Dio, spesso ritenuta sbrigativamente efficace, può rivelarsi davvero tale soltanto quando siamo disposti a fare i conti con noi stessi. Altrimenti, un po’ come Paolo, ci illudiamo che la trasformazione avvenuta sia totale e radicale, senza che in verità lo sia fino in fondo.

    Ma c’è ancora un aspetto del carattere di Paolo che emerge da questi versetti e che vorrei provare a riscattare. Il compito che egli sente con chiarezza di aver ricevuto è quello di annunciare Gesù alle nazioni, ovverosia, con ogni probabilità, agli ebrei che vivevano nella diaspora, fuori da Israele. Inizialmente Paolo interpretò in questi termini la chiamata che gli era stata rivolta, dirigendosi sempre in primo luogo nelle sinagoghe ebraiche delle città in cui giungeva.

    Qui l’apostolo incominciò a sviluppare una visione dell’ebraismo più aperta, al cui centro stava la confessione di Gesù come messia inviato per la salvezza di quanti confessavano la propria fede in lui. Queste prime, timide aperture, come testimonia lo stesso libro degli Atti, di norma incline a sminuire le controversie, non erano ben viste da una parte dei dodici che risiedevano in Gerusalemme. Paolo, che sempre considerò il proprio mandato analogo al loro, definendosi, come loro, apostolo (ovverosia «inviato», come chiarisce anche nel nostro testo di oggi), non ritenne necessario consultarsi con i dodici circa la sua vocazione: di quella, credeva, doveva rendere conto a Dio soltanto, che gliela aveva rivolta. Altro che chiesa «cattolica», unanime e concorde nel credo e nelle decisioni: Paolo compie un deliberato atto di insubordinazione. Prima si fa uguale agli apostoli, poiché, a suo parere, uguale a loro lo ha reso Dio rivolgendogli la medesima vocazione all’invio e all’annuncio; poi decide di varcare i confini di Israele, senza ritenere necessaria, in proposito, una consultazione con i «dodici». Paolo obbedisce alla sua vocazione e a chi gliel’ha rivolta: di questioni di buon vicinato o di corretti rapporti istituzionali non si cura affatto. Non recherà alcun danno agli apostoli: metterà soltanto in chiaro il fatto che, dal suo punto di vista, nella fede non esistono gerarchie. Questo sarà il tratto di Paolo che la Riforma erediterà e ribadirà: l’unità non si può ottenere a prezzo della libertà. Sia l’apostolo che i riformatori opteranno per quest’ultima, anche a rischio di compromettere quella concordia che, senza libertà, perde ogni valore. Paolo, l’intransigente, fu anche un uomo profondamente libero, recalcitrante dinanzi a chi ricorre all’autorità in luogo delle ragioni.

    Sarebbe comodo da parte mia, oltre che eccessivamente ottimista, ravvisare in questo aspetto indomito una somiglianza tra me e Paolo. La verità, se anch’io voglio fare i conti con me stesso, è che con l’apostolo, molto probabilmente, le somiglianze riguardano anche il carattere spigoloso ed impulsivo ed una certa intransigenza a livello di convinzione di fede, sebbene le nostre due rispettive fedi derivino, con ogni probabilità, da due sensibilità e da due esperienze diverse. Io mi trovo a dover fare i conti la mia e con i suoi limiti; Paolo ha cercato di fare i conti con la sua. Io come lui ho difficoltà a riconoscere alcuni aspetti della mia identità che non amo e che vorrei cambiare, che invece si riaffacciano di continuo nelle relazioni di cui sono punteggiate la mia vita e la mia quotidianità. Certo è che questo amore sviscerato che Paolo manifesta per la libertà, questa sua scarsa attitudine ad un’obbedienza comandata o quantomeno raccomandata, rappresentano quell’eredità del suo spirito e del suo pensiero che io intendo raccogliere e che vorrei che venisse a connotare in maniera più nitida quella chiesa fedele all’evangelo che ancora non vedo e che anch’io come l’apostolo, immerso in mille contraddizioni, desidero, costruisco, attendo.  

    Domenica 27 Ottobre 2013 – pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com