Ragionare comunicando e scrivere per sintesi pungenti qualificano il metodo aureo di Gina D’Angelo nel breve ma denso saggio “Noi c’eravamo”, edizioni “Torri del vento” di Palermo. Libera da schemi ambigui, con fine vena polemica, pure contro se stessa, nel tentativo di piegare la storia alla vita, l’autrice apre nuove riflessioni fino a identificare costanti e varianti nell’esercizio delle funzioni umane.
In più, impone a come scrivere una robusta dieta parolaia.
Del resto, se la penna o la tastiera prendono sopravvento, si rischia una scrittura grassa, pesante, e grafomani all’ingrosso. Se si vuole che la parola sia tutt’uno con le cose, quel sostantivo, quel verbo, quella frase deve essere unica, priva di zavorra, un tassello nel mosaico di ciò che si sente o si osserva. Assediato dal dominio chiassoso di contenitori mediatici senza contenuti, il lettore sa individuare il velleitario da chi scrive per scelta maieutica.
Pietra miliare della ricerca è il pensiero in forma di poesia di un saggio orientale che sogna l’incontro tra natura e cultura. La loro separazione è alla base di squilibri, conflitti, infelicità a catena. Ma, di quante separazioni si compone l’esistenza umana?
Separando educazione e istruzione, separando le attività umanistiche dalle scientifiche e oscurando le artistiche, separando i mezzi dai fini per eleggere ed escludere, la formazione della personalità si è ridotta a ciò che esige il dio…mercato. Né passa inosservato, in quelle dinamiche, il dato che l’atto stesso del conoscere, governato dal ferreo principio d’autorità – ti è stato detto -, si è nel tempo sovrapposto al conoscersi, al guardarsi dentro, alla ricerca di risorse e bisogni interiori donati differentemente dalla natura. Dal dogma non si è passato al dubbio, e da questo a un costrutto più composito e più armonioso.
Quando qualcuno ne rilevò nocività e compromissioni, il potere lo servì a dovere: prima la derisione poi l’erba velenosa.
Di contro, il latinista Romagnoli capì che la mente individuale può entrare direttamente nello studio di ogni materia, ma non ne trasse le debite conseguenze per tornaconto personale.
Risultato ancora più misero, comunque, lo raggiunge la pletora di ex sessantottini divenuti intellettuali di regime o, in alternativa, capi gazzettieri garantiti.
Di ben altro lievito civico vissero G. Schiera e G. Meli, gente refrattaria agli inchini, uomini liberi perché poeti. Dunque artisti.
Al di là dei nomi, non c’è pagina che non si trasformi in una scure contro pigrizie mentali, comodi opportunismi, e quel morbido guanciale di memoria petrarchesca. Sebbene poco si speri, le ragioni della passione sociale restano esemplari, in coerenza con la testimonianza critica sul “secolo breve”. E si rilegge perché la rilettura ne prova la felice creatività.
4/11/2013 Peppe Sciabica