Marco comincia il capitolo VI del suo racconto della vita di Gesù con un “Poi..-“
Poi partì di là e andò nel suo paese e i discepoli lo seguivano
Proviamo ad entrare in quella situazione, cercando di capire che cosa in realtà sta succedendo. Probabilmente questa lettura farà sorgere in noi domande cui non sappiamo dare una risposta. Trovare una risposta comporta, spesso, un cammino lungo, a volte accidentato, che non possiamo affrontare in questa breve meditazione. Cominciamo…
Insomma, dopo aver lasciato casa sua e il suo paese (Nazareth, in Galilea) ed essere andato da Giovanni il battista, dopo essere stato per quaranta giorni nel deserto, dopo aver insegnato in lungo e in largo per la Galilea seguito da folle esaltate dalla sua fama di guaritore…Marco - conclusi questi primi cinque capitoli – comincia il sesto dicendoci che Gesù decide infine di tornare al suo paese. Era partito da solo e ritorna seguito da numerosi discepoli. Si aspetta che la fama delle sue predicazioni e delle guarigioni straordinarie sia arrivata anche a Nazareth. Ma, a quanto pare, in base a ciò che il racconto non dice ma fa intendere, i suoi compaesani non mostrano alcuna particolare attenzione o curiosità. Possiamo immaginare che sia tornato a vivere in casa sua assieme ai suoi numerosi fratelli e sorelle e che abbia sistemato in qualche modo, in qualche locanda o presso amici, i discepoli.
Venuto il sabato si mise ad insegnare nella sinagoga. Molti udendolo si stupivano.
Qui ci sono due verbi che disegnano come un quadro: c’è uno che, alzatosi in piedi, al centro di una assemblea, sta parlando con il tono e le parole di chi insegna, e tutt’attorno vediamo i volti degli ascoltatori che lo guardano – e fino a qui è banale – però lo guardano pieni di stupore. E che è successo? Lo conoscono bene Gesù, da quando era bambino. Non avevano saputo niente delle sue predicazioni in giro per la Galilea? Sembra strano. Forse sapevano, ma avevano preso quelle notizie per esagerazioni. D’altro canto si diceva in giro che era diventato matto. Ma ora non sembrava matto. Sembrava un altro.
E dicevano: da dove gli vengono queste cose? Che sapienza è questa che gli è data? E che sono queste opere potenti fatte per mano sua?
In realtà anch’io mi sono meravigliato. Ma non del fatto che Gesù faccia una predicazione coinvolgente e straordinaria. Dopo duemila anni di cristianesimo e avendo per giunta letto i quattro Evangeli mi sembra normale che Gesù manifesti una grande sapienza. Mi sono meravigliato dello stupore dei suoi concittadini. E che? Non lo conoscevano? Evidentemente non lo conoscevano. Ma forse è Gesù che si è tenuto nascosto per tanti e tanti anni. E perché? Non ce l’ho una risposta. Provo ad immaginare che lo stesso Gesù non avesse chiaro il senso di ciò che gli urgeva dentro. Infatti ad un certo punto decide di partire da casa alla ricerca del senso profondo della propria vita. (Capita a tutti i giovani e le giovani: ad un certo punto una irrequietezza profonda li pervade, una voglia irrefrenabile di uscire fuori dal guscio rassicurante – e spesso soffocante – in cui vivono e cercare una risposta alla domanda “ che ci sto a fare qui, in questo mondo? “ ). E come prima cosa, come raccontano gli Evangeli, va a trovare Giovanni il battista. Gesù conosce bene Giovanni; ed anche Giovanni conosce bene Gesù. Sono parenti e coetanei. Sua mamma, Maria, appena accortasi di essere incinta di lui, era andata a trovare Elisabetta, al sesto mese di gravidanza. Era rimasta tre mesi a casa sua, di fatto fino alla nascita di Giovanni. Gli Evangeli non ci raccontano altro, ma non è strano immaginare che questi due coetanei si siano incontrati diverse volte, almeno durante le feste ebraiche più importanti,quando si riunisce quella che noi oggi chiameremmo la famiglia allargata. Chissà quante discussioni avranno intrecciato fra di loro questi due ragazzi e poi giovani e poi adulti. Giovanni aveva deciso prima di Gesù, aveva lasciato la sua casa ed era andato a predicare e battezzare. E Gesù lo va a trovare. Giovanni, che lo conosce bene, gli dice, son io che dovrei farmi purificare da te; ma Gesù insiste per essere sottoposto alla immersione nelle acque del Giordano, come tutti gli altri. Dopo essere stato nel deserto, da un bel po’ di tempo va in giro per la Galilea insegnando e facendo “opere potenti” ( che noi chiamiamo “miracoli”, cioè opere che riempiono di meraviglia). Insomma, Gesù si aspetta che i suoi compaesani sappiano che è diventato un uomo ben diverso da quell’artigiano, magari un po’ scontroso e silenzioso, che per tanti anni ha costruito tavoli sedie carri per i suoi concittadini. E si sbaglia di grosso. Fra quelli che lo stanno ascoltando le parole che corrono sono
Non è questi il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, Jose, Giuda e Simone? E le sue sorelle non stanno qui con noi?
E l’evangelista conclude così
E si scandalizzavano a causa di lui.
Ma come? Anche Gesù può essere fonte di scandalo? Ma, allora, tutti possiamo esserlo. Vi confesso che mi mette molto a disagio l’uso di questa parola riferita a Gesù. Lo stesso Marco riporta le parole di Gesù che condanna duramente, in maniera inesorabile, chi “avrà scandalizzato questi piccoli che credono in me” (Mc 9, 42). Probabilmente, la parola “scandalizzare” viene usata da Marco con due significati diversi, a seconda delle situazioni in cui avviene lo scandalo. Nel caso di Gesù, che sta insegnando nelle sinagoga di Nazareth, proviamo a capire in che cosa è consistito lo “scandalo”. Gesù sta provocando uno shock terribile negli ascoltatori con le sue parole e anche con qualche “opera potente”, probabilmente imponendo le mani su qualche malato e guarendolo. Si rendono conto che avviene qualcosa di straordinario ma non possono attribuirlo a quel falegname, che fino a qualche mese prima segava e piallava in quella sua bottega. Lo rifiutano. Se ne vanno via mormorando e gesticolando e probabilmente esclamando “ ma allora è vero quello che si diceva in giro, che è impazzito”. E Gesù conclude, sconsolato:
E Gesù diceva loro “ Nessun profeta è disprezzato se non nella sua patria, fra i suoi parenti e in casa sua”
E aggiunge l’evangelista
E non vi poté fare nessuna opera potente ad eccezione di alcuni malati a cui impose le mani e li guarì
E infine Marco conclude il suo racconto dicendoci di Gesù
E si meravigliava della loro incredulità.
Splendido il modo come Marco chiude questa vera e propria scena teatrale, rappresentazione di un momento cruciale della vita di Gesù ( ma mentre lo dico mi accorgo che tutti i momenti raccontati dai vangeli sono “cruciali” cioè importantissimi ed essenziali) All’inizio Gesù che parla in un cerchio di persone a bocca aperta, sbalordite e sorprese; alla conclusione queste stesse persone stanno andando via gesticolando, scuotendo la testa, parlando animatamente in piccoli gruppi; e Gesù, che osserva quelle schiene che si allontanano, sbalordito. Non se l’aspettava. Tocca a lui di essere sotto shock. Forse si potrebbe dire che, ora, sono i suoi compaesani che stanno scandalizzando lui.
A me sembra che questo racconto di Marco ( che troviamo quasi identico anche nell’Evangelo di Matteo) costituisca come una parentesi di normalità nella vicenda di un uomo di cui gli scrittori che ne parlano vogliono evidenziare l’eccezionalità rispetto a tutti gli altri esseri umani. Gesù è tanto ingenuo da pensare che la sua profonda trasformazione da artigiano a profeta possa essere accettata come se nulla fosse, si meraviglia per quella incredulità che non ha saputo né prevedere né accettare, tanto da pronunciare quella frase – diventata proverbio – “nessun profeta in patria”. Riflettendoci sopra, mi sembra la frase desolata di chi reagisce di fronte ad un pregiudizio che non ha saputo prevedere, una frase che non merita di essere diventata un proverbio, se non come auto giustificazione di chi non accetta un proprio fallimento. Infatti i “profeti in patria” ci sono, ne abbiamo esempi recenti, come Martin Luther King ( negli USA), Gandi ( in India), il vescovo Romero ( in Salvador) tutt’e tre ammazzati da armi da fuoco, lì nella loro patria, dove avevano operato in nome dei propri ideali. E ci sono “profeti” che non vengono ammazzati, come Nelson Mandela in Sudafrica. In fondo, questa sua frase non l’hanno presa sul serio nemmeno i suoi discepoli, in particolare i “dodici”, che rimangono abbarbicati a Gerusalemme, appunto “in patria”, dopo la sua morte.
A questo punto, inevitabile sorge un’altra domanda. Come mai, perché Marco e Matteo inseriscono un tale episodio nei loro racconti? Sembra che vogliano dirci, sì, era unico ma era anche tanto fragile come ognuno di noi. E in questa sua fragilità posso viverlo anche come fratello oltre che come via verso verità e vita, cioè libertà.
Giovanni Lombardo -