Il brano che segue, e che ho scelto quale introduzione alla mia meditazione, è tratto dall’intervento del teologo svizzero Karl Barth alle Rencontres internationales di Ginevra del 1° settembre 1949. Il tema del convegno era “Per un nuovo umanesimo”.
<<L’uomo esiste in un libero incontro con l’altro essere umano, in una vivace relazione tra ciascuno e il suo prossimo, tra io e tu (...) Un essere isolato e rinchiuso in sé non è essere umano. L’io senza tu è inumano (…) L’essere dell’uomo (…) visto verticalmente, è reale soltanto nella storia con il suo Dio, orizzontalmente è necessariamente una storia tra uomo e uomo (…)
Il messaggio cristiano protesta contro il potere dell’uomo sull’uomo (…) Il messaggio cristiano vede e riconosce la dignità umana, il dovere dell’uomo, il diritto umano, ma soltanto in un quadro dove l’essere dell’uomo vero è un libero stare insieme con il suo simile. L’uomo però (…) non vuole avere Dio come Dio (...) E uomo egli lo vuole essere senza il suo prossimo (…) Nella misura in cui desidera questo, pecca e resta debitore di se stesso a quel Dio che è suo principio e fine, e a quell’uomo che è suo compagno in umanità. Nella sua follia, interrompe il flusso della corrente nella quale egli era collegato con Dio e con il prossimo. Si inaridisce la sua duplice storia. In questo modo la realtà umana è divenuta una realtà offerta alla inconsistenza, alla morte eterna. Non è destino dell’uomo che le cose stiano così (…) Il decisivo annuncio del messaggio cristiano è (…) il seguente: proprio (…) quest’uomo che, se lo prendiamo per quel che vale, è semplicemente cattivo e perduto, è sostenuto da Dio, da quel Dio che è vero Dio e in quanto tale divenne vero uomo (…) Quel che l’uomo ha seminato, lo stesso deve raccogliere. Ma Dio si è preso l’incarico di ricuperare quel raccolto e Dio stesso, al posto dell’uomo, ha seminato nuova semente per l’uomo (…) Dio stesso ha pronunciato con ciò la parola di perdono, la parola del nuovo comandamento, la parola della resurrezione della carne e della vita eterna.>>
Giovanni 15,12-17 “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi.Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”
Care sorelle e cari fratelli, vorrei condividere con voi qualcosa che è scritto nei capitoli precedenti al testo del vangelo di Giovanni scelto dalla comunità Canadese che ha preparato quest’anno la liturgia per la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani. Al cap. 13 è descritta una scena a noi molto nota. Siamo a poche ore dall’arresto di Gesù. Lui e i suoi discepoli stanno cenando. Ad un certo punto, a pasto cominciato dunque, Gesù si alza da tavola, depone le sue vesti, si cinge con un asciugatoio la vita, versa dell’acqua in un catino e, chinatosi, comincia a lavare i piedi a tutti e ad asciugarli con l’asciugatoio con il quale si era cinto la vita. Un’azione, questa, che i giudei del tempo, pur collocandola prima del sedersi alla mensa, conoscevano molto bene. Essa esprimeva accoglienza e cortesia nei confronti degli ospiti. Un gesto di solito svolto da uno schiavo pagano, da un servo o da una donna. Compiendolo Gesù si umilia ad un punto tale da assumere proprio la forma di … “servo dei suoi discepoli”, di coloro che egli ama (cfr. Giovanni 13,1b).
Quante volte abbiamo ascoltato queste parole! Quante volte ci siamo immaginati la scena appena descritta! Tante sono state le volte che, ormai, la stranezza del gesto non suona più tanto curiosa a noi occidentali. Un gesto di cura per i propri commensali: … Giuda compreso!
Andando più avanti, nei versi successivi, osserviamo un’altra scena: si svolge sempre attorno alla tavola. Gesù, per indicare colui che lo avrebbe di lì a poco tradito, intinge il boccone e lo dona a Giuda. Anche questo era un gesto familiare ai giudei del tempo, che lo riservavano, quali padroni di casa, all’ospite degno di maggiore riguardo. Un gesto che denota rispetto per l’altro. Un’azione che Gesù attua nei confronti del suo … “traditore”.
Al verso 15 sempre del cap. 13 del vangelo di Giovanni, Gesù dice: “vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come vi ho fatto io”.
A seguire questi due episodi ci troviamo immersi in un lungo discorso di Gesù ai discepoli, incentrato tutto sull’intensità del suo Amore. Giuda intanto è andato via e per questa sua assenza ha perso una grande occasione. Qual è? Attingere forza da quest’Amore. Un amore, quello di cui parla Gesù, che accoglie, rispetta, rende onore e perdona; che non si trattiene dal donarsi agli altri per il loro bene; che desidera vivere in comunione con i suoi amati, in perfetta simbiosi, in completa sinergia con loro; un amore che non è sterile e arido, ma fecondo e porta frutto.
“Amatevi come io ho amato voi” - La sentite l’energia di questa semplice frase carica di dolcezza ed intimità infinite? – “Come io ho amato voi, come io ho amato voi, amatevi”. In altre parole è come se Gesù avesse voluto dire: “Dimostrate a gesti, più che con le sole labbra, l’amore gli uni per gli altri, così come io l’ho mostrato a voi (anche con i fatti) … a voi tutti: Giuda di tutti i tempi compresi!
“Amatevi come io ho amato voi”. Questa frase suona anche come un vero e proprio testamento, valido già da un paio di millenni. Sono “le ultime volontà” di Gesù per i suoi amati e sono chiarissime. Sono pubbliche, ma ancora oggi poco visibili in quanto non completamente attuate nelle nostre realtà. Sempre nel vangelo di Giovanni (13,35) è scritto che i figli di Dio, i figli della Luce si riconosceranno, dall’amore che dimostreranno ai propri simili. Solo con questa dimostrazione i cristiani saranno credibili. Non lo saranno perché avranno ostentato la propria fede, la propria teologia, la propria dottrina o le proprie tradizioni; né perché avranno profetizzato, cacciato demoni e fatte potenti operazioni nel nome di Gesù (cfr. Matteo 7:22). Lo saranno per l’amore, visibile perché concreto, degli uni verso gli altri. Un amore che non è legato ad una determinata attività, ma che è un modo di essere, un atteggiamento di vita.
L’amore di Gesù Cristo … la nostra identità. Per questa identità noi non possiamo sottrarci dal rispettare la volontà di Colui che ci ha liberati dalle tenebre e ci ha portati a vivere nella luce. Non possiamo non dare ascolto alle parole del testamento di Colui che per amore nostro ha dato la vita. E non possiamo continuare ad odiare nostro fratello, o ad essergli indifferenti, perché questo non è previsto nella nostra identità di cristiani.
Il cristiano non può vivere come se il diverso da sé mini la sua identità; non può avere una mentalità individualista né vivere nella dimensione dell’io. Il cristiano deve dare valore all’altro non per quello che l’altro fa, ma per ciò che l’altro è: figlio, come lui o lei, di Dio; e deve guardare all’altro come se guardasse…un dono del Signore.
Siamo stati tutti scelti da Gesù e siamo stati tutti chiamati (o costituiti) a mettere a disposizione degli altri, i doni che il Signore ci ha dato e questo è per l’utilità comune. Se io mi approprio dei talenti che il Signore mi ha donato e me li tengo stretti, creo divisione o individualismo. Se, al contrario, me ne esproprio, li dono cioè gratuitamente (così come gratuitamente li ho ricevuti) creo comunione e unione. L’unione è il frutto di cui Gesù parla. Egli è il modello di come si costruisce questa comunione fraterna. Il comando all’amarci reciprocamente ha in Lui la sorgente e la misura. Noi non siamo stati chiamati a far parte di un progetto umano basato sulle nostre precarietà, ma tutti apparteniamo ad un piano divino fondato sull’amore incondizionato del nostro Signore.
Mi rendo conto che amarsi sia più impegnativo di quanto non lo sia odiarsi; e che amarsi costi più di quanto non costi essere indifferenti. Anche l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani (7,19) era preoccupato perché il bene che avrebbe voluto fare non riusciva a farlo, mentre il male che non avrebbe voluto e dovuto fare quello faceva. Sembra allora che il percorso che dal vecchio uomo, che tende a chiudersi nel suo io, porti all’uomo “nato di nuovo”, che si dedica e si dona agli altri, richieda volontà e passione. Siamo davanti ad una scelta: fare la volontà di Dio o non farla; ascoltare e mettere in pratica il comandamento dell’amarci reciprocamente o non ascoltare e rimanere passivi a crogiolarci nelle nostre priorità. Siamo chiamati a sfidare il nostro insano e innato egoismo. Ma non saremo lasciati soli in questo: Gesù sarà con noi. Non perderemo, perché Gesù ha già vinto per noi. Niente e nessuno ha minato l’identità del Messia, né gli ha fatto distogliere lo sguardo dalla meta. Non c’è riuscito Giuda, né le frustate, non c’è riuscito Pietro né gli sputi, non c’è riuscito l’immane peso dei nostri peccati né i chiodi conficcati nella sua carne, non c’è riuscita l’angoscia, non c’è riuscito l’abbandono.
A noi non è chiesto di immolarci nel senso materiale del termine. Ci è chiesto… anzi ci è comandato (questo il termine usato da Gesù nel vangelo di Giovanni) di amarci. Non di tollerarci, ma di amarci. L’amore fraterno, quello che ci impegneremo di provare tra di noi e per il quale lavoreremo perché non venga perso, ci renderà uniti e in armonia. E se “l’unione fa la forza” (come dice un noto proverbio) di conseguenza la separazione è debolezza. Se pensiamo di non riuscire a vincere questa sfida, se sentiamo di essere incapaci e impotenti di fronte al nostro stesso egoismo, ricordiamoci … che lo spirito ci viene incontro nelle nostre debolezze (cfr. Romani 8, 26) e si muove ed agisce là dove noi non possiamo arrivare.
Lella Teresi - Marsala, 21 gennaio 2014 - Celebrazione cumenica