L’uomo moderno crede di perdere qualcosa – il tempo – quando non fa le cose in fretta; eppure non sa che cosa fare del tempo che guadagna, tranne che ammazzarlo.
(Erich Fromm)
L’aforisma di Fromm (1900 - 1980) sorprende per la sua attualità. Nel mondo moderno, l’onnipresente senso di fretta sembra placarsi soltanto quando riusciamo, per dovere o per compulsivo piacere, a fare molte cose insieme; è una tendenza multitasking che ci permette di accumulare e di “ottimizzare”, certo favorita dalla tecnologia. Ma cosa accade al tempo che abbiamo risparmiato? Siamo ancora capaci di utilizzarlo per noi stessi, rubandolo ai doveri quotidiani o perfino abbandonandolo alla noia, vero spauracchio di un mondo iperveloce, oppure lo utilizziamo comunque per “fare” qualcosa, piuttosto che per “essere”? Il tempo è uguale per tutti, giovani e meno giovani? E soprattutto, che importanza ha in relazione ad una quotidianità che sempre più spesso vede intersecarsi online e offline, virtuale e reale?
La percezione del tempo delle diverse generazioni di ieri e di oggi
La rivoluzione epocale del Terzo Millennio è forse davvero rappresentata dalla percezione differente dello scorrere del tempo che hanno le generazioni di “ieri” e di un “domani” che è già qui: ovvero, i nonni e i padri dei cosiddetti “nativi digitali”.
Vengono così definiti i nati negli anni Novanta e Duemila, che hanno conosciuto soltanto un mondo in cui le tecnologie digitali come computer, cellulari, MP3, smartphone, tablet fanno parte integrante della realtà quotidiana. C’è poi la generazione “cerniera” dei fratelli maggiori, quelli che hanno conosciuto il mondo “precedente” e si sono adattati mediamente bene all’attuale, soprattutto per ragioni lavorative. Quelli che telefonavano dalle cabine telefoniche e scrivevano lettere a mano, e rapidamente – quasi naturalmente – sono passati a smartphone e email.
Perché il mondo non è stato, ovviamente, così come lo conosciamo oggi: sono passati “soltanto” quarant’anni dall’avvento del primo telefono cellulare mentre il primo smartphone (telefono intelligente) è del 1993, poi commercializzato su larga scala dal 2006/2007.
Il Web – una parte di Internet che permette di navigare e usufruire di un insieme vastissimo di contenuti (multimediali e non) collegati tra loro attraverso legami (link), e di ulteriori servizi accessibili a tutti o ad una parte selezionata degli utenti – risale al 6 agosto 1991, giorno in cui fu messo on-line su Internet il primo sito Web.
La rivoluzione è stata certamente prima quella di poter scegliere una completa reperibilità, il poter essere raggiunti ovunque e in ogni momento del nostro tempo: una caratteristica portata alle estreme conseguenze con i dispositivi di localizzazione, quelli per intenderci che raccontano al resto del mondo anche dove siamo. Sono opzioni che si scelgono, è vero: ma in qualche modo attraggono, o hanno attratto all’inizio, anche chi viveva benissimo senza. La migrazione del Web dai computer fissi ai portatili prima e agli smartphone poi ha reso possibile una connessione costante con il resto del mondo, non solo telefonica appunto, ma “sociale” a tutto tondo.
Vale la pena, dunque, fare una riflessione sulla percezione del tempo in relazione alle diverse generazioni. I nostri padri o anche i nostri nonni dedicavano più tempo alle relazioni “vere” o queste vengono favorite maggiormente dalla possibilità di interagire con più persone contemporaneamente?
L’osservazione dei meccanismi “social” più virtuosi fa ben sperare in un connubio positivo, dove l’uso corretto della tecnologia aiuta a colmare le distanze, a intrecciare relazioni che altrimenti non sarebbero potute essere, a manifestare in misura maggiore la propria creatività e quindi, in qualche misura, a “mostrare” se stessi all’esterno perfino con maggiore sincerità.
Altro discorso è quello della tendenza a riempire comunque i “vuoti”, nel senso più positivo di “vacuum”, il tempo sospeso nelle attività quotidiane. L’incapacità o il disagio nell’affrontare i “tempi morti” possono essere apparentemente risolti dalle numerose possibilità della tecnologia, quali giochi, informazione, incontri, forum e naturalmente i social network, talvolta in maniera parossistica. I momenti di solitudine e anche di noia, lo sappiamo, possono generare creatività e comunque educare all’introspezione e all’analisi di sé e degli altri. Verrebbe da pensare, ma forse questo è un retaggio conservatore di chi appartiene a quella “generazione cerniera” dei nati negli anni Sessanta-Settanta, che ai giovani di oggi questa possibilità è negata per via delle infinite possibilità di distrazione che la tecnologia offre. Anche questo è un elemento da inserire, forse, nell’educazione familiare e scolastica, per un approccio corretto ed “ecologico” alla modernità.
I nostri figli e le nostre figlie “iperconnessi”
È dunque opportuno dedicare una particolare attenzione a giovani e giovanissimi. Secondo l’Eurispes, “il 12 per cento dei bambini tra i 7 e gli 11 anni naviga per più di 2 ore al giorno e il 15 per cento sta per lo stesso tempo di fronte ai videogiochi. Tra gli adolescenti, dai 12 ai18 anni, le due percentuali salgono addirittura al 40 e al 47 per cento. L’85 per cento dei giovani tra i 12 e i 19 anni ha un profilo Facebook”.
Si pone quindi una questione per i genitori dei “nativi digitali”, che è certamente di tipo educativo, anche per se stessi. La sfida del presente e del futuro è quella di capire, ancor prima di giudicare, le vite dei ragazzi e delle ragazze “connessi” (in questo senso l’ultimo libro di Michele Serra, “Gli sdraiati”, racconta bene lo sgomento degli adulti), con un approccio il più possibile “laico”. E facendo molta attenzione a come noi adulti per primi ci relazioniamo con il web, e come utilizziamo il tempo che vi trascorriamo.
“Molte persone lo fanno per soddisfare ‘bisogni di sicurezza’ (in Facebook le persone con cui si comunica sono solo ‘amici’ e non estranei); a bisogni associativi (con gli ‘amici’ posso comunicare, condividere foto e scambiare opinioni); a bisogni di stima (si possono scegliere gli ‘amici’ ma io a mia volta posso essere scelto da altri. Per cui se tanti mi scelgono accresco la mia autostima) e i bisogni di autorealizzazione” (dagli studi di Ambrogio Pennati, e Samantha Bernardi, psicologa).
Di grande interesse anche l’opinione del dottor Federico Tonioni, del Centro per la cura delle dipendenze da internet del Policlinico Gemelli di Roma (il primo creato in Italia), in una intervista a La Repubblica: «Dobbiamo partire dal presupposto che per i nostri figli, i nativi digitali, la relazione con gli altri si sviluppa online. Con i social network e in certi casi, quelli più regrediti, con il gaming online, che porta al ritiro sociale. Siamo tutti più compulsivi, anche noi adulti siamo sempre attaccati a strumenti tecnologici e abbiamo una minore disponibilità affettiva nei confronti dei figli». Il ruolo di mediatore culturale e digitale dei genitori è proprio questo: «Bisogna partecipare a quello che fanno online i bambini e i giovani, comunque abituarli a esprimere le proprie emozioni, a non chiudersi davanti a uno schermo, che rende la realtà distante e ovattata».
La tecnologia ci fa risparmiare tempo o al contrario lo consuma?
L’altra grande questione è quella per cui la tecnologia avrebbe dovuto semplificarci la vita, facendoci risparmiare e meglio utilizzare il bene più prezioso, cioè il tempo, e in un certo senso l’ha fatto. Ma il tempo risparmiato viene spesso investito in altra tecnologia, in modalità di relazione che non sono certo soltanto “virtuali” ma comunque presuppongono un uso intensivo degli strumenti tecnologici. Sottraendo, forse, tempo ed energie, attenzioni e presenza, alle relazioni “ortodosse”, cioè vis à vis. Così sembra pensarla Scott Wallsten, economista presso il Technology Policy Institute di Washington. Basata sui dati relativi al periodo 2003–2011 forniti dall’indagine American Time Use Survey, curata dal Dipartimento del Lavoro degli Usa, la sua ricerca, disponibile sul sito del National Bureau of Economic Research, tra i più autorevoli think tanks statunitensi, mette in luce come un americano sottrae in media 16 secondi al lavoro e 7 secondi al sonno per ogni minuto di tempo libero passato online (cioè quello trascorso sui social network, a navigare con il browser per motivi non lavorativi, o a inviare messaggi via posta elettronica, escludendo comunque nel computo l’attività di gioco sul web). É un argomento abbastanza controverso: se la dipendenza da Internet (Internet addiction disorder (IAD), termine coniato da Ivan Goldberg, M.D., nel 1995) e segnatamente dai social network è un fenomeno in crescita e riguarda prevalentemente la fascia d’età fino ai trentacinque anni, è anche vero che rinunciare completamente a questi strumenti è assai difficile, sia per quanto riguarda la vita professionale che privata.
Sarebbe corretto puntare l’attenzione sulla tendenza più frequente – e più corretta in termini di “sostenibilità” anche emotiva – cioè quella per cui online e offline si intersecano.
Se infatti è plausibile pensare che il futuro, ma anche il presente, è fatto di “relazioni”, ecco che la tecnologia e nello specifico le sue articolazioni “social” possono facilitare le amicizie, che però acquisiscono piena “verità” quando si concretizzano.
Diventa essenziale, ancora una volta, non soltanto l’approccio individuale di ogni persona allo strumento, ma anche l’educazione “digitale”, che permette di distinguere i meccanismi dell’essere “amici” su Facebook, ad esempio, o di ricevere immediate gratificazioni e apprezzamenti, con i tempi diversi delle amicizie e relazioni (amicali, professionali, familiari, occasionali) del mondo reale.
Il dato di fatto che è interessante rilevare è che il lato personale e la vita degli utenti, le loro sensazioni e stati d’animo sono la chiave vincente anche in termini di economia e marketing: così il social più famoso, Facebook, inserisce la possibilità di aggiungere un emoticon al proprio status. Cioè non solo possiamo scrivere come stiamo, ma anche “mostrarlo”, sottolineandolo nella grafica. Stiamo diventando – ma il punto interrogativo è d’obbligo – “collezionisti di emozioni”, come scrisse tempo fa Roberto Cotroneo su Sette?
La condivisione dei contenuti e la “persistenza” della Rete: per una comunicazione “ecologica”
Siamo tutti e tutte, dunque, mediamente dotati di smartphone, o di Ipad, o di un computer.
La nostra vita è documentabile sempre: l’ultima promessa della Sony è quella di una macchina fotografica indossabile, la Smart life log camera, una piccola fotocamera da appendere al collo che scatterà immagini in sequenza, trasformabili in un filmato. Un “time lapse” della propria vita. La nostra memoria, cioè, potrebbe essere salvata nei dispositivi portatili che conserveranno tutta la nostra vita in maniera automatica. Questo scenario futuristico si lega, da una parte, alla rivoluzione epocale del poter essere sempre “in collegamento” con il resto del mondo e dall’altro con la tendenza, favorita e talvolta resa ipertrofica, a raccontare di sé e a mostrarsi. Talvolta anche senza la piena consapevolezza del funzionamento della Rete. Che è un luogo pubblico dotato della caratteristica della “persistenza”: quello che mettiamo online “vive” praticamente in eterno una volta pubblicato. Fotografie, testi, immagini e qualsiasi contenuto che riguardi noi stessi o gli altri (nello specifico i minori, con tutte le esigenze e conseguenze del caso per quanto riguarda la loro privacy attuale e futura).
A questo proposito, è bene ricordare che tutto ciò che pubblichiamo o condividiamo contribuisce all’immagine di noi stessi che mostriamo al mondo, in un certo senso costruisce la nostra reputazione e che potenzialmente è “virale”. Cioè può diffondersi a macchia d’olio, soprattutto attraverso i social.
Si tratta di un vero “telefono senza fili” moderno, per cui una notizia – spesso anche una “bufala” – viene amplificata, presa per oro colato perché compare su un profilo personale o su un sito a caso, discussa in pubblico con affermazioni impegnative, come se le valutazioni che si esprimono in Rete non avessero importanza, come se si potesse dire tutto e il contrario di tutto su qualunque cosa.
Quello di cui c’è bisogno, nel tempo moderno che stiamo vivendo e nel futuro, è indubbiamente una maggiore attenzione all’alfabetizzazione “digitale”: cioè non tanto le competenze di base per utilizzare gli strumenti, quanto l’essere capaci di consumare i contenuti che produciamo da un punto di vista critico. Cerchiamo, in questo mondo ultraveloce che ci bombarda di stimoli, di praticare comunque una sorta di ecologia della comunicazione, insomma: perché le parole sono ancora, e sempre, importanti.
(*) Francesca Madrigali, giornalista e blogger, è nata e vive in Sardegna da 39 anni e si sente isolana ma non isolata. Tra gli argomenti di scrittura prediletti le donne, la Sardegna, il lavoro e le storie delle persone.
da 'Vociprotestanti.it' del 3.7.2014