Alle undici tutto è pronto per l’arrivo dell’uomo più minacciato d’Italia. In cima alla strada, davanti alla pizzeria Da Enzo, quattro pattuglie dei carabinieri sono in attesa. La notte prima, dalle 23 all’una, gli uomini e i cani dell’unità cinofila hanno ispezionato i locali. Subito dopo sono arrivati gli artificieri. Al mattino, poco prima che la gente cominciasse a riempire la sala, hanno rifatto gli stessi controlli.
Nel cortile sono schierati 24 poliziotti addetti all’ordine pubblico. Intorno alla biblioteca comunale si contano altre 12 vetture delle forze dell’ordine. Ecco la prima delle quattro macchine della scorta. Una volta superato il cancello della biblioteca comunale di San Giuseppe Jato scendono gli agenti. Si guardano intorno. Aprono la porta posteriore della seconda vettura. Ne esce l’uomo che «putissimu pure ammazzarlo» secondo Totò Riina, sottoposto a un livello di sorveglianza che si trova un gradino sopra a quello dei magistrati più esposti e un gradino sotto a quello riservato al presidente della Repubblica. È un prete.
Sono quasi due mesi che la vita di don Luigi Ciotti è cambiata. Ieri lo hanno scoperto in tanti alla marcia della pace Perugia-Assisi, quando lo hanno visto circondato da uomini in borghese che si guardavano intorno circospetti. Vicino e al tempo stesso distante dagli altri. Le chiacchierate del capo dei capi mafiosi durante l’ora d’aria hanno rivelato un interesse nei suoi confronti che rasenta l’ossessione. Altri boss, dopo mesi di silenzio parlano di lui. Le intercettazioni finite sui giornali sono frammenti di un discorso in divenire. C’è di peggio nelle loro parole. C’è un progetto che prevede diffamazione e calunnia. In mancanza del tritolo vogliono seppellirlo con l’infamia. All’inizio di settembre il ministero dell’Interno ha così deciso di blindare la vita a un ragazzo di quasi 70 anni che svolge il suo sacerdozio molto lontano, a Torino.
La Sicilia era scritta sul palmo della sua mano. Ci torna quasi ogni settimana, per viaggi a tappe forzate dalla logistica estrema. Quando è sull’isola la scorta di don Luigi quasi raddoppia, per comprensibili ragioni. Alla sorveglianza di grado più alto vengono aggiunte altre due vetture e altri quattro uomini provenienti dalla scorta di Antonio Ingroia.
Quel giorno, il 23 maggio 1992, si trovava a Palermo per un corso di formazione. Il primo aereo che decollò da Capaci dopo la strage fu il suo. «Mi chiesi cosa potevo fare». La risposta arrivò da un volontario del Gruppo Abele, l’associazione contro le narcomafie da lui creata cinquant’anni fa. Giancarlo Caselli, un altro con Palermo nel destino. Le proprietà e i terreni confiscati ai clan, come fossero un interruttore. Dal male al bene, dall’indifferenza alla presa di coscienza. Stava per nascere Libera, che oggi contiene altre 6.500 associazioni, il marchio che certifica la perdita di terreno, non solo figurata, della mafia. Le minacce sono sabbia nell’ingranaggio di una vita in perenne movimento. All’inizio di ottobre era a Lampedusa, poi è tornato a Torino via Malpensa per dir messa e celebrare un funerale. Poi è volato a Roma per un incontro istituzionale. Subito dopo è tornato in Sicilia per la lunga giornata in cui lo aspettavano per consegnargli la cittadinanza onoraria del paese che fu roccaforte dei Corleonesi. Tre tappe per 600 chilometri. A sera ha preso l’ultimo aereo, il giorno dopo partecipava alle esequie di un amico. Avanti e indietro, sempre. Ancora Roma, due volte, ancora Palermo. Infine ieri in Umbria alla marcia della pace. Ogni volta con un passaggio di consegne, la sosta nella piazzola di un hotel fuori mano per la staffetta tra scorte ausiliarie, che affiancano quella ufficiale per seguirlo nel loro territorio.
A casa sua è peggio. Gli spostamenti brevi sono più difficili. Quando è a Torino don Luigi viene seguito da altre due auto. Il protocollo prevede la consegna degli appuntamenti di giornata e un preavviso di un’ora per qualunque imprevisto, sia un caffè al bar o una visita in chiesa, con bonifica dei luoghi. Sabato 11 ottobre, ad esempio. Di nuovo a Torino per battezzare il figlio di un funzionario della questura. Nessuno strappo alla regola. Come in Sicilia, doppia bonifica, sera e mattina presto. La chiesa piena di poliziotti era sorvegliata da decine di poliziotti.
San Giuseppe Jato era il paese di Giuseppe Brusca e di Santino Di Matteo, il bambino ucciso e sciolto nell’acido dopo una lunga prigionia. Ora sui terreni che furono di quel boss prospera una delle più grandi cooperative siciliane. Vino e cibo che va in tutto il mondo. Sull’etichetta di ogni bottiglia e barattolo c’è scritto da dove viene, e perché. Nelle intercettazioni Riina parla della «roba» che era sua. «Ci sono alcune ragioni per cui mi vogliono male. Abbiamo dimostrato che è possibile fare senza di loro, prendere il loro patrimonio e renderlo produttivo. La seconda è il nostro sforzo per creare una coscienza. La mafia teme più le scuole della giustizia. In Sicilia abbiamo avviato cinquemila progetti didattici. Infine c’è la nostra scelta di costituirci parte civile nei processi, fornendo assistenza legale ai testimoni di giustizia. Assicuro che dà molto fastidio».
La neonata cooperativa citata proprio ieri da don Luigi come unico antidoto ai Totò Riina di questo mondo si trova a Castelvetrano, in provincia di Trapani. I suoi ragazzi gli avevano preparato uno spuntino in un uliveto bruciato dai mafiosi non proprio entusiasti del passaggio di proprietà. «L’unica paura è quella di non riuscire a fare le cose. Più se ne parla, più le famiglie hanno difficoltà a mandare i loro cari ai nostri appuntamenti. Non sono minacce, è una strategia». All’improvviso si era sentito un rumore da oltre il muro di cinta. Il caposcorta e i suoi uomini avevano camminato tra i rovi ed erano entrati nella proprietà confinante. Pochi giorni prima, a Lampedusa, qualcuno aveva esploso alcuni colpi di fucile davanti all’albergo dove dormiva don Luigi. Non si capisce mai se sono falsi allarmi oppure dell’altro. La vita sotto scorta è una tortura della goccia cinese. «D’accordo, ma non fare troppo casino su questa storia. Tanto prendo e parto lo stesso. Ora ti saluto, che sto salendo sull’aereo».
Marco Imarisio - Il Corriere della Sera del 20 Ottobre 2014