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14/11/2014 07:45:00

Mafia, processo Eden. Si è parlato degli affari dei Messina Denaro

Società, denaro e affari della famiglia mafiosa castelvetranese sono stati l’oggetto della deposizione, in Tribunale, a Marsala, del maresciallo dei carabinieri Michele Granato, ascoltato nell’ambito del processo scaturito dall’operazione ‘’Eden’’, che alla sbarra degli imputati vede, tra gli altri, Anna Patrizia Messina Denaro, Francesco Guttadauro (rispettivamente sorella e nipote del boss latitante Matteo Messina Denaro), e Antonino Lo Sciuto. Rispondendo alle domande dei pm Carlo Marzella e Paolo Guido, il sottufficiale del Ros ha spiegato quanto emerso dalle indagini. In particolare quelle ‘’su Masaracchio Leonardo, che con altri due stava progettando un fallimento pilotato della Gruppo Salvo (bancarotta fraudolenta) con distrazione verso la Edil Magasal’’. Quest’ultima ‘’impresa riconducibile agli interessi di Messina Denaro e in particolare di Salvatore’’. Gaspare Clemente è stato accusato di aver distratto 350 mila euro ‘’che erano diretti a Salvatore Messina Denaro’’. La Magasal è stata costituita nel 2006 da Maurizio Arimondi, arrestato nell’operazione ‘’Golem 2’’ e condannato dal Tribunale di Marsala a 12 anni di carcere. ‘’Arimondi – ha detto il maresciallo Granato - era l'autista di Salvatore Messina Denaro e sua persona di fiducia. Altri soci erano Gaspare Clemente e Salvatore Lupo’’. Dopo una serie di passaggi di mano, amministratore unico diverrà Nicolò Mobile e nel novembre 2012 l’impresa è fallita. Granato ha, quindi, parlato dei movimenti di Masaracchio, sulla cui auto fu piazzata una ‘’cimice’’ per intercettarne le conversazioni, dei suoi incontri con Francesco Guttadauro. ‘’Masaracchio – ha proseguito il maresciallo Granato - era funzionario di banca a Marsala e parla con Guttadauro delle somme che Gaspare Clemente avrebbe sottratto dalla Magasal, somme che sarebbero dovute andare a Salvatore Messina Denaro, somme sottratte sia ai soci di fatto che a quelli occulti’’. Infine, i pm hanno voluto approfondire la vicenda dei ‘’lavori effettuati dalla Bf di Giovanni Filardo (cugino di Matteo Messina Denaro, ndr) al porticciolo di Marsala’’ di cui aveva parlato il capitano Parasiliti Molica. ‘’Lavori svolti nel marzo 2010 – ha Granato – per conto di Claudio Bologna nei capannoni della Polaris’’. Prossima udienza del processo il 20 novembre. Sul pretorio salirà un altro investigatore: il maresciallo dei carabinieri Luca Tofanicchio.

PARLA PALAZZOLO. La prima cosa che ha tenuto a dire è stata che non è un pentito né ha niente di cui pentirsi. Che rinnega la mafia e che dice di esserne una vittima. Però Vito Roberto Palazzolo, nonostante l’esordio non proprio incoraggiante, ha comunque parlato. Ha avviato un dialogo con i pm di Palermo quando era ancora in Thailandia, nei ventuno mesi di detenzione a Bangkok, un periodo che non dimenticherà mai. Ha proseguito al ritorno in Italia, avvenuto nel dicembre scorso. Nel giro di sei mesi gli è stato revocato il regime del carcere duro, il cosiddetto 41 bis. E ora Palazzolo, nato a Terrasini ma per oltre 25 anni abitante e residente in Sudafrica, Paese del quale ha acquisito la cittadinanza, è un «dichiarante» che comincerà a parlare nei prossimi giorni davanti ai giudici della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, presieduta da Silvana Saguto.
È Francesco Nania, il personaggio su cui il pm Dario Scaletta, senza depositare i verbali (cosa non prevista tassativamente, in questi procedimenti), ha preannunciato che Palazzolo potrà rendere le prime dichiarazioni: Nania, 45 anni, figlio di Antonino e nipote di Filippo, entrambi mafiosi di Partinico, è sottoposto a un procedimento il cui fine ultimo è la confisca del suo patrimonio. L’ex finanziere, che sta scontando una condanna a nove anni, è originario di un paese vicino e può rendere dichiarazioni «di contesto» e specifiche, dato che, anche nel corso della sua latitanza dorata a Capetown, nel 1996 ospitò due mafiosi latitanti, originari proprio di Partinico, Giovanni Bonomo e Giuseppe Gelardi: un’ospitalità scoperta grazie a un’intercettazione telefonica e che costò carissima a Palazzolo. Secondo i giudici l’episodio sarebbe stato infatti sintomatico della sua continuità nell’appoggio a Cosa nostra, datato dal 1992 al 2001.