CI SONO alcune storie che porto dentro, che percepisco come zavorra, come se mi intasassero il respiro, eppure sono memoria necessaria, perché dimenticare significherebbe perdersi. Quella zavorra e quel peso sono pilastro e la radice della mia vita. Sono storie che tendono a essere dimenticate per istinto di conservazione; è come dimenticare la guerra, lasciar perdere il dolore, far finta che tutto sia superato. E Sola con te in un futuro aprile di Margherita Asta e Michela Gargiulo (Fandango) racconta una storia da dimenticare, una storia preziosa.
È il 2 aprile di trent’anni fa, Carlo Palermo è arrivato in Sicilia da quaranta giorni. A Trapani aveva preso il posto di un magistrato coraggioso ucciso dalla mafia, Giangiacomo Ciaccio Montalto. Due macchine della scorta parcheggiano davanti al cancello di una villetta vicino a Bonagia, a 3 chilometri di distanza dalla casa della famiglia Asta.
Il giudice vive lì da appena una settimana, prima alloggiava all'interno di un aeroporto militare, a Birgi, che aveva dovuto lasciare da un giorno all'altro proprio quando le minacce contro di lui si erano fatte più concrete. La sua stanza, gli dissero, sarebbe servita al ministro della Difesa Spadolini, in visita alla base. Si mise a cercare una nuova sistemazione, ma nessuno voleva affittare la propria casa a una persona scortata e sotto minaccia. L'unico posto che riuscì a trovare era in un complesso residenziale abitato solo d'estate.
C'era un giardino e finalmente avrebbe potuto tenere con sé i suoi cani, ma per arrivare in tribunale doveva percorrere sempre la stessa strada, senza possibilità di variare il percorso. Inoltre, per avere rapporti di buon vicinato era stata data disposizione alle auto di scorta di non mettere in funzione le sirene. In quel contesto arriva l'ultima telefonata di minacce che era stata ancora più esplicita e definitiva: "Dite al giudice che il regalo sta per essergli recapitato".
Carlo Palermo, la mattina del 2 aprile 1985 scende di casa alle 8 e qualche minuto per andare al Tribunale di Trapani. Normalmente sale dal lato destro dell'auto, ma quella mattina per fare in fretta il suo autista, Rosario Maggio, parcheggia troppo vicino al muro. Quel giorno il giudice si accomoda dietro il sedile di guida. Prova a bloccare lo sportello, ma la sicura non funziona. Sul rettilineo di contrada Pizzolungo la macchina trova davanti a sé un'altra auto, una Volkswagen Scirocco, dentro ci sono Barbara Rizzo, giovane madre di 31 anni, e due dei suoi tre figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe di 6 anni. Sta accompagnando i piccoli a scuola. L'autista del giudice aspetta il momento giusto per iniziare il sorpasso; c'è un'altra auto ferma, parcheggiata vicino a un muro di contenimento, che non ostacola la manovra. Le tre auto, per un unico istante, si trovano perfettamente allineate. È in quel preciso momento che viene azionato il detonatore.
L'esplosione è devastante. Una bomba fatta di tritolo, T4, pentrite e Semtex, un esplosivo militare utilizzato per potenziare l'innesco. (Vengono utilizzati candelotti di brixia b5, lo stesso tipo di esplosivo del fallito attentato all'Addaura contro Giovanni Falcone e della strage avvenuta neanche quattro mesi prima, il 23 dicembre 1984, quella del rapido 904). L'utilitaria fa scudo all'auto del sostituto procuratore che si ritrova scaraventato fuori dalla macchina, in piedi, ferito ma miracolosamente vivo. Muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Di loro restano pochi brandelli ritrovati poi a oltre cento metri dal luogo dell'esplosione. In alto, su di un muro, una macchia rossa di sangue, l'impronta terribile lasciata dal corpo di uno dei due bambini. Il botto è fortissimo, si sente fino in città. Nunzio Asta, il marito di Barbara e padre dei due bambini, è ancora a casa in quel momento. In quei giorni va a lavoro un po' più tardi, ha avuto un intervento al cuore e si sta ancora rimettendo. Sente il boato, pensa abbiano fatto esplodere una palazzina lì vicino, va in giardino e vede la colonna di fumo.
Esce per andare a prestare soccorso, ma non lo lasciano avvicinare. La Volkswagen di sua moglie è stata polverizzata, non sospetta che la sua famiglia sia rimasta coinvolta. Margherita, l'altra figlia di dieci anni, in quel momento è già a scuola. Avrebbe dovuto essere a bordo anche lei, ma quella mattina i due fratellini ci mettevano troppo tempo a vestirsi, volevano indossare entrambi gli stessi pantaloni, e per non fare tardi chiede un passaggio in macchina alla mamma di una sua amica. I carabinieri arrivano in classe per contare i bambini presenti, è in questo modo che si rendono conto che almeno lei è viva.
Margherita e la sua famiglia con la mafia non c'entravano niente. Per questo le parole pronunciate dal vescovo nell'omelia risuonano incomprensibili alle sue orecchie di bambina. Parlano di una "mente perversa" e di una "mano omicida", della "rabbia mafiosa" tornata a insanguinare le strade. Vorrebbe chiederne il senso a suo padre, che le stringe la mano e non sa smettere di piangere, ma ha solo dieci anni, e quella è una domanda troppo difficile da formulare. Sua madre, Barbara Rizzo, e i suoi fratellini, Salvatore e Giuseppe, sono morti in un incidente. È questo che le hanno detto, ma è successo tutto così in fretta, non ha avuto neanche il tempo di fermarsi a pensare. Di chiedersi, ad esempio, che fine avessero fatto i loro corpi, non le hanno permesso di vederli, di poterli salutare un'ultima volta.
Le bare chiuse, sono ora davanti a lei, al centro quella scura, di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto le due più piccole, bianche, con i gigli. Margherita non può saperlo, ma lì dentro oltre ai loro vestiti non c'è quasi niente. C'è una corona di fiori con la scritta Pertini, vista così da vicino sembra immensa, e ce n'è un'altra del presidente del Consiglio Craxi. Ci sono i gonfaloni del comune, fasce tricolori, e uomini delle forze dell'ordine ovunque. Se ne rende conto solo adesso, Margherita, della folla che c'è nella cattedrale di Trapani. Tanta gente per un funerale l'ha vista solo in televisione, ma quelle erano morti importanti: celebrità, capi di Stato.
Oggi, invece, sono tutti lì per sua madre e i suoi fratelli, persone normali. Forse, pensa, è per i miei fratelli, erano così piccoli che tutti avranno voluto partecipare al nostro dolore. Dopo i funerali, ritornando a casa, la macchina è costretta a rallentare. È il luogo dove è successo l'incidente, la strada è stata riaperta da poche ore. Margherita ha il tempo per guardare fuori dal finestrino: "C'è una buca enorme sull'asfalto, sembra sia esploso un vulcano". In alto, troppo in alto, sul muro di una casa c'è una macchia rossa. Margherita la vede appena, ma questa volta ha una domanda impossibile da trattenere: "Papà, è sangue nostro questo?".
Margherita pensa per anni che la colpa sia del giudice, di Carlo Palermo. Ma crescendo capisce che lui non c'entrava niente, che era stata la mafia a uccidere sua madre e i suoi fratelli e a distruggere le loro vite. Lei e il giudice erano entrambi dei sopravvissuti, per loro aveva deciso il destino. Non è stato facile per Margherita cercare "quel signore". Ancor meno facile per lui è stato lasciarsi trovare, provando a superare un terribile senso di colpa. C'è un elemento su cui convergeranno le dichiarazioni dei pentiti: per uccidere Carlo Palermo non c'era bisogno di un'autobomba. Palermo viveva in una villetta isolata, gli era stata negata la vigilanza armata per mancanza di uomini e mezzi e la sera usciva da solo per portare fuori i cani. Ma l'attentato doveva essere un ammonimento, spettacolarizzare la morte moltiplica la paura. È questo che hanno fatto (e fanno) le mafie ben prima dei gruppi islamisti.
Sola con te in un futuro aprile è un libro devastante e assume in alcuni momenti il profilo di un manuale di sopravvivenza a un dolore impossibile da contenere. La strada che ha trovato Margherita per sopravvivere al suo dolore è quella di raccontare la propria storia, la storia di sua madre e dei suoi fratelli, vittime innocenti. Trova un'immagine Margherita, per raccontare il modo in cui ha rimesso insieme i pezzi della sua vita. È una tecnica giapponese, il kintsugi, che si usa per riparare i vasi di ceramica che si sono rotti. Non si cerca di rincollare i pezzi nascondendo i segni della lacerazione, ma anzi si esaltano, utilizzando una pasta d'oro. Il vaso, in questo modo, diventa più prezioso. Quell'intreccio di linee dorate restituisce il mondo andato in frantumi e nasce una nuova forma, più solida di quella che c'era prima.
Roberto Saviano - La Repubblica