Pochissimi giorni ci separano dalla chiusura dei battenti della mostra curata da Ester Coen dedicata a Matisse a Roma.
Sontuosa e generosa nelle sue suggestioni d’Oriente, l’esposizione prevede la presenza di oltre novanta opere del grande artista francese concesse da contenitori museali, vere star planetarie, come la Tate, il MET, il MoMa, il Puškin, l’Ermitage, il Centre Pompidou e l’Orangerie.
Il titolo della mostra, Matisse, arabesque, è ricavato dalle parole dello stesso pittore: “quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione del quadro.”
Ben più lontano nel tempo, oltre Matisse, il rapporto con l’Oriente ha segnato integralmente il flusso creativo del vecchio continente fra XIX e XX secolo da Blake, Ingres e Delacroix, da Gauguin, Nolde, Picasso e Klee: tutti hanno, sull’onda lunga del pungolo roussoiano, tessuto con i mondi lontani un dinamico rapporto composto di ologrammi magnetici e cangianti.
Vi è nell’arte contemporanea, nella sua relazione quasi carnale con l’esotismo, una formulazione lirica che sollecita i sensi a lasciar emergere l’autenticità dell’essere, pari ad un impeto centripeto nella prima metà del XIX secolo, diretto a setacciare spontaneismi comportamentali smarriti dalla pruderie borghese. Questa stessa formulazione si tramuta radicalmente in un vettore centrifugo, dalla seconda metà dell’800, destinato a dissodare, in opposizione alla prima metà del secolo, la frattura tendinea, tutta occidentale, fra genuinità e consuetudine dell’agito quotidiano, lasciando sulla terra arida, sovente, ma non in Matisse, disorientamento e abbandono.
L’aspirazione alla mollezza ridondante di mondi remoti accompagna, dunque, il desiderio dell’uomo contemporaneo di recuperare un dialogo frammentato con una natura non più matrigna, ora picco esplorativo di una dimensione alternativa, integrale, dell’essere, espansivo, sensoriale e visionario in cui la forma non scivola nei formalismi.
Di questa lettura Matisse è sublime assertore, proprio lui che non era destinato alla pittura, “Sono figlio di un commerciante di sementi, al quale avrei dovuto succedere nella gestione del negozio” diceva di sè.
Nel 1906 Matisse è in Algeria e nel 1907 in Italia dove “quando vedo gli affreschi di Giotto non mi preoccupo di sapere quale scena di Cristo ho sotto gli occhi ma percepisco il sentimento contenuto nelle linee, nella composizione, nei colori”.
La visita alla grande “Esposizione di arte maomettana” nel 1910 e il viaggio in Marocco del 1912 lo portano a completare il percorso e a dichiarare che “un tono non è che un colore, due toni sono un accordo”.
Schivo e appassionato allo stesso tempo, Matisse raggiunge presto una maturità espressiva che lo induce a raccogliere nel colore d’oriente, intimistico, selvaggio, poetico e sfrenato allo stesso tempo, un’essenza spirituale, sintesi rivoluzionaria della verità poetica dell’esistere.
La verità rivelata di Matisse fatta di armonia e concordanze profonde, la stessa che troverete ne la più famosa “Danza”, in cui cielo, terra e uomo sono un’unica cosa, ancora per pochi giorni alle Scuderie del Quirinale, vi lascerà a bocca aperta: vedere Matisse è da sempre e per sempre un privilegio.
Francesca Pellegrino