Il racconto, di per sé, è un componimento letterario in prosa, fatto spesso d’invenzioni, normalmente più ampio rispetto alla novella, distinto dalla fiaba perché tende a presentare i fatti come realmente avvenuti, ma più breve in relazione al romanzo. Il racconto è caratterizzato da alcuni elementi, codificati da Edgar Allan Poe (1809 – 1849), scrittore, poeta, critico letterario, giornalista, editore e saggista statunitense, quali la brevità, l’essenzialità, la densità e l’unicità. Scrivere un racconto è così un’arte. È un genere letterario che possiamo far risalire ai primi raggruppamenti umani e viene fuori dall’esigenza di comunicare, propria dell’uomo. A essa appartiene una millenaria tradizione orale che giunge fino all’epoca contemporanea.
L’atto del raccontare (narrare) equivale anche a esporre fatti o discorsi entro una storia, specialmente se fatto a voce o senza particolare cura, oppure se relativo ad avvenimenti privati. Così, se il racconto è riferito a una specifica persona, diventa biografico; se in riferimento a sé stessi, autobiografico. Dal punto di vista contenutistico esso può essere storico, leggendario, favoloso, verosimile, inverosimile.
Quello del narrare è, quindi, un ruolo antico come l’uomo, anzi prima ancora che adam (nome ebraico che significa venire dal suolo) esistesse sulla terra. Se la creazione dell’universo è opera di un Assoluto, costui nel creare non ha fatto altro che riportare (narrare) la sua vita Trinitaria di relazione e di amore, Dio stesso esce dal suo mistero per farsi presente all’uomo e la partecipazione della vita equivale a un’uscita esodiale: «I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» (Sal 19, 2). Cristo stesso con la sua incarnazione è venuto a narrarci quello che il Padre, lo Spirito e Lui stesso sono per sua natura Amore.
Nella Sacra Scrittura Dio vuole che le Sue opere siano tramandate da padre in figlio, perché tutti devono conoscere quello che Lui ha compiuto con il Suo Popolo e sperimentare i significati storici e spirituali nella propria esistenza. Ogni ebreo deve sapere che l’uomo è argilla nelle mani del suo Vasaio e che la sua vita dipende da Dio. Così è per l’uscita dall’Egitto, così per l’istituzione della Pasqua: «Quando tuo figlio un domani ti chiederà: “Che significa questo?”, tu gli risponderai: “Con la potenza della sua mano il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto dove eravamo schiavi”» (Es 13, 14) e ancora: «... Perché tu possa raccontare nelle orecchie di tuo figlio e di tuo nipote quello che ho operato in Egitto, i segni che ho compiuti in mezzo a loro e così conoscerete che io sono il Signore» (Es. 10,42).
Tutta la Bibbia è, a sua volta, un narrare le meraviglie che Dio ha compiuto e anche se il genere letterario usato è, per l’appunto, il racconto, perché più comprensibile a tutte le culture, le verità che a esso sottendono sono, nello stesso tempo, profonde e sublimi.
La Chiesa, poiché è “anziana”, della stessa natura di Dio, non cessa di celebrare “Fate questo in memoria di me” e amare. Soprattutto sulla terra ha il compito di profetizzare, non nel senso di predire il futuro ma di annunziare e narrare l’opera di Dio che è Amore: «Vi annunziamo la vita eterna che era accanto a Dio Padre e che il Padre ci ha fatto conoscere. Perciò parliamo anche a voi di ciò che abbiamo visto e udito» (1Gv 1, 2-3). E Paolo afferma: «La fede dipende dalla predicazione, ma l’ascolto è possibile se c’è chi predica Cristo» (Rm 10, 17). Il Concilio Vaticano II, a sua volta, nel decreto sui laici dice che «Essi esercitano l’apostolato evangelizzando e santificando gli uomini, e animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine temporale, in modo che la loro attività in quest’ordine costituisca una chiara testimonianza a Cristo e serva alla salvezza degli uomini» (AA n. 2). La Chiesa, dunque, si racconta non solo attraverso la parola ma la stessa testimonianza è narrazione di vita e di fede. Così fecero gli apostoli che, sparsi per il mondo, cominciarono a narrare quello che avevano visto, udito e vissuto con Gesù, quel Figlio di Dio che usò spesso il racconto per ammaestrare. Dopo la resurrezione che cosa fa Gesù? Continua ad ammaestrare i discepoli. Nell’incontro coi discepoli di Emmaus, Gesù non fa che usare lo stesso genere e, discutendo con loro, spiega i passi della Bibbia che lo riguardavano a cominciare dai libri di Mosè fino agli scritti di tutti i profeti (cf. Lc 24, 27). Il narrare, quindi, nel linguaggio cristologico ed escatologico non è richiamare solo alla mente fatti avvenuti in precedenza (anche quello; sono avvenimenti in cui trionfa l’Amore di Dio per l’umanità e in cui le atrocità degli uomini hanno preso il sopravvento sul bene) ma attualizzare, nel qui e ora, il piano della salvezza celebrando ogni giorno nella liturgia della quotidianità la presenza di Dio in ogni uomo.
L’uomo, a sua volta, non può fare a meno di essere un testimone, soprattutto se battezzato, e continuare a narrare le meraviglie che Dio ha compiuto sulla terra. Il narrare diventa, allora, un obbligo personale perché l’essere umano è chiamato a vivere la sua vita come una continua narrazione di ciò che Dio ha compiuto in lui, con lui e per lui: Qui fecit te sine te, non te iustificat sine te (Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te) (S. Agostino, Sermones ad populum, 169, n. 13). Narrare è, allora, vivere e vivere è narrare.
Il racconto non è un genere asettico, esso contiene un messaggio ben chiaro e di facile comprensione, ecco perché i primi fruitori sono i bambini e gli adolescenti ai quali spesso ci si rivolge. A noi interessa entrare in una dimensione speciale, che è il mondo dell’anziano, del soggetto che racconta, per capire come il ruolo del narratore sia a lui più congeniale e perché.
Se il narrare è prerogativa di ogni essere umano indistintamente, è più adatto all’anziano perché egli è una sintesi di una parte della storia dell’umanità che sente di dovere trasmettere . Egli ha l’obbligo di narrare, e di narrarsi, come atto di condivisione, tutto ciò che ha vissuto, come esperienza, per rendere presente il passato e preparare il futuro delle nuove generazioni. Perciò, uno dei ruoli che egli ha nella famiglia è quello di trasmettere ai nipoti la cultura dei suoi avi, affinché il legame parentale sia più stretto e non vadano perdute né le tradizioni, né la fede e la cultura degli antenati.
Oggi, in un mondo individualizzato e privo di relazioni, si va perdendo questo vincolo ancestrale. Non si sente più il bisogno di ascoltare, perché si è depositari, soprattutto dai più giovani, di una “sapienza innata”, come se l’ascolto togliesse qualcosa al proprio essere piuttosto che arricchirlo: si ha sempre più paura delle differenze, come perdita di qualcosa e non di guadagno. I nonni non sviluppano più la dote del raccontare e del raccontarsi, il loro posto è stato sostituito dalla televisione, dai cartoni animati che sono freddi e giammai carichi di patos, di sensus affettivo e di desiderio di arricchimento. All’amore dei nonni è subentrata la glacialità del racconto televisivo, alla mimica degli anziani, l’immagine costruita in serie, statica che non produce emotivamente coinvolgimento a un verosimile vissuto. Si è perso un valido strumento pedagogico, un aiuto mistagogico e antropico originario.
Si finisce così col creare una dicotomia tra passato, presente e futuro. La storia non è più sentita come magistra vitae ma come evento occasionale e temporaneo da vivere all’occorrenza.
Ritornare a raccontare e a dialogare significa, allora, riprendere la propria umanità, l’esigenza di relazionalità per continuare a essere noi stessi e ricostituire quella armoniosità che è presagio gioioso di pace, di bellezza e di equilibrio interiore e spirituale, comunionale.
Salvatore Agueci