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20/06/2016 06:00:00

Essere giornalista antimafia. Una riflessione

 Una riflessione sul significato comunemente attribuito a questa definizione e sugli aspetti contraddittori di questa terminologia

 

Mi chiedo da tempo che cosa significhi la qualifica di “giornalista antimafia” della quale alcuni si fregiano e che altri si vedono attribuita d’ufficio.

So bene, e voglio sottolinearlo, che ci sono giornalisti che indagano sulla mafia con competenza e coraggio e che nove di loro hanno pagato questo impegno con la vita, ma mi pare che nessuno di loro sia stato etichettato come giornalista antimafia e se lo fosse stato non credo avrebbe gradito quell’appellativo. Ma penso anche che alcuni giornalisti si fregino di questo titolo per darsi importanza e nascondere magari lacune professionali, deficienze che non li farebbero brillare.

Un bravo giornalista per qualificarsi non ha bisogno di foglie di fico, né di alcuna etichetta,  né di indossare divise. Per lui parla il suo lavoro. È un bravo giornalista chi racconta fatti di interesse pubblico, anche quei fatti rognosi che alcuni vorrebbero tenere nascosti. È un bravo giornalista chi cerca attivamente le informazioni, sa scovarle, interpretarle, metterle in fila nell’ordine giusto ed  esporle in modo da farne comprendere la portata e il senso complessivo. È un bravo giornalista chi si sforza di descrivere la realtà vera senza purgarla, senza abbellirla, senza neppure chiedersi a chi giova la conoscenza di quei fatti.

Il giornalista che agisce così fa bene il suo mestiere, non è in guerra con nessuno, se non con chi vorrebbe tenere segreti fatti e circostanze che i cittadini hanno il diritto di conoscere. Chi agisce così, chi fornisce informazioni veritiere svolge un servizio pubblico e la legge dovrebbe riconoscerlo. Dare ai  cittadini gli elementi necessari per orientarsi e compiere scelte consapevoli è importante quanto fornire l’istruzione di base, e forse anche di più poiché soltanto nella misura in cui sono informati i cittadini possono partecipare attivamente e in piena autonomia di giudizio alla vita pubblica.
Se sono questi i compiti e i doveri di ogni giornalista, che senso ha definire qualcuno “giornalista antimafia”? Che senso ha che alcuni si auto-definiscano tali? Nessuno, credo.

Infine, c’è l’accezione più comune che si dà a questo termine e merita una riflessione a parte. Come   giornalista antimafia spesso si indica chi  ha canali informativi privilegiati con le Procure della Repubblica e con alcuni procuratori. Come ha scritto l’avv. Andrea di Pietro LEGGI IL TESTO a volte questi legami fra alcuni giornalisti e alcune procure sono troppo stretti. Condivido il ragionamento. Quante volte un certo giornalismo ha raccontato le vicende di mafia osservandole attraverso gli atti della Procura e senza un’osservazione diretta della realtà? Quante volte un certo giornalismo ha parteggiato per le procure, gridando allo scandalo quando un Tribunale assolveva qualcuno? Quante volte la mafia è stata descritta (soltanto) attraverso le tesi della pubblica accusa, anche in processi a carico di personaggi di notevole rilievo? E quanti giornalisti sono diventati esperti conoscitori della mafia per il semplice fatto di avere partecipato a incontri con alcuni magistrati “antimafia”? Forse, troppe volte.

Valerio Vartolo

L’avvocato Valerio Vartolo fa parte dello Sportello Legale di Ossigeno per l’Informazione che fornisce assistenza ai giornalisti in difficoltà a causa del loro lavoro.