Ha vinto Albinati. Ha vinto uno scrittore credibile. Ha impiegato dieci anni per scrivere La scuola cattolica, e questo da un valore aggiunto al volume nell’Era del fast. Non ho letto il libro, ma posso già parlarne bene perché conosco l’autore attraverso altri scritti, attraverso la sua storia. Tuttalpiù muoio, scritto a due mani con l’attore Filippo Timi nel 2006, un libro impossibile da ignorare per quella copertina accattivante, una bocca spalancata che urla qualcosa con una smorfia che non vuole sedurre ma riesce ad incuriosire. Ha pubblicato con i grandi: Mondadori, Longanesi, ma anche con Fandango, Guanda e anche questo mi piace, questo vagare senza concedersi totalmente ad una casa editrice. Insegna nel penitenziario di Rebibbia, e questo lo rende speciale dal punto di vista umano. Un uomo che conosce e incontra ogni giorno storie forti, violente e drammatiche, ecco perché mi convince. Scrive bene, e questo dovrebbe bastare per affrontare, senza spaventare, la mole del volume vincitore dello Strega di quest’anno: 1294 pagine. Le battute si sprecano da questo punto di vista, c’è chi dice se insieme al libro in allegato viene dato un tubetto di lasonil per il polso, o se il drone di Amazon rischia di schiantarsi al suolo durante una consegna. Non credo che di un libro si possa dire è troppo lungo quando affronta la vita in tutte le sue declinazioni, ma proprio tutte. Un libro è lungo e pesante quando ti annoia, quando non riesce a parlare con il singolo lettore che lo sorregge in mano per leggerlo. Nei prossimi giorni si parlerà a lungo di questo libro, del suo contenuto, evito pertanto di farlo anch’io, vi regalo un estratto, breve ed efficace, perché… è da questi particolari che si giudica uno scrittore.
“È un’interessante caratteristica novecentesca questa insistenza verso i luoghi privi di storia, l’anonimato, l’intercambiabilità, l’indifferenza morale, il grigiore del cranio rasato, il vuoto, la diffidenza verso la cultura, l’afasia, insomma la sua fredda passione per il nulla. Il carattere penitenziale del Novecento, dai cubisti a Samuel Beckett passando per i lager, ha bisogno di operare su una tabula rasa. Più che il risultato di un processo, la disumanità è la sua condizione di partenza: straniero, indifferente, senza-qualità, monocromo, sub-umano, de-evoluto, arbeiter, muselman, uomo-macchina, cyborg, pezzo di body-art, replicante, salma, fossile, escremento, scarafaggio, assassino senza ragioni e ribelle senza causa… ecco il protagonista perfetto, l’eroe forgiato nell’officina del secolo scorso. Ogni residuo di umanità ostacola la corsa della mente e rallenta l’azione, sbarazzarsi di quell’ingombro umano rende più rapidi, leggeri, automatici. La pressione del dito su un grilletto viene più facile se non ci si impiglia nelle retrovie di sentimenti e riflessione. Ero convinto, come tutti, che fosse l’odio a dettare questi gesti, ma l’odio agisce solo come spinta iniziale e non va mai disgiunto dal ragionamento, che può temperarlo, commisurando cause spesso teoriche a effetti concreti. Per quanto forte l’odio non basta da solo ad andare fino in fondo. Finché si tratta di menar le mani, l’adrenalina aiuta, ma se devi ammazzare è molto più efficace l’indifferenza, la neutralità. L’impersonalità che non riconosce i freni inibitori del carattere. I veri killer sono freddi, come freddo dev’essere il seduttore”.
Katia Regina