Da otto secoli una voce fuori dal coro
In una nazione sempre meno religiosa, ma non per questo meno intrisa di cultura cattolica, la Chiesa
evangelica valdese rappresenta da 800 anni una voce fuori dal coro.
Figlia dei movimenti di riforma del XII secolo che si battevano contro la corruzione romana, questa
comunità cristiana – nata sull’insegnamento di Valdo di Lione e costretta dal potere secolare a
radicarsi in quelle che sarebbero diventate le valli valdesi del Piemonte – ha subìto una prima
persecuzione già nel Medioevo e una serie di attacchi successivi, in conseguenza dell’adesione alla
Riforma protestante, dalle «Pasque piemontesi»del 1655 alle persecuzioni del 1686, culminate
nell’esilio e nel successivo «Glorioso rimpatrio».
Nel 1848 con Carlo Alberto avveniva finalmente la fine della “ghettizzazione” e il riconoscimento
dei diritti civili dei valdesi, ma la libertà di coscienza era ancora negata, dal momento che la
religione cattolica rimaneva religione dello Stato.
L’emarginazione non ha comunque impedito che la presenza dei valdesi sia stata significativa tanto
nel processo risorgimentale, quanto nella Resistenza al nazi-fascismo, particolarmente forte nelle
Valli e alimentata da un ventennio di limitazione delle libertà delle minoranze religiose e di
repressione dei culti «non ammessi».
Nella cornice democratica del dopoguerra, la “battaglia” dei valdesi è proseguita in un’Italia in cui
la simbiosi tra il potere politico e la Chiesa cattolica era ormai la cifra dominante del sistema.
Dal conflitto per la libertà si passava alla campagna per la laicità dello Stato, in un Paese in cui era
(ed è ancora oggi) in vigore il Concordato. Non è casuale, dunque, che pastori e intellettuali valdesi
e metodisti si siano distinti nell’elaborazione di una nuova teologia, che dalla distinzione operata da
Karl Barth tra Dio e il mondo traeva il fondamento di una visione politica antitetica alle costruzioni
culturali democristiane. Contemporaneamente, proseguiva quel processo di riavvicinamento delle
confessioni che portava alla costituzione della Federazione delle Chiese evangeliche e al patto
d’integrazione tra valdesi e metodisti.
Siamo negli anni ’70, caratterizzati anche nel campo protestante dalla penetrazione del marxismo e
dallo sviluppo, spesso in connessione con i gruppi del «dissenso cattolico», delle teologie politiche
rivoluzionarie. Esperienza simbolica di quella stagione è il centro ecumenico di Agape a Prali
(Torino), fucina teorica promossa dal pastore Tullio Vinay e spazio politico di riferimento per gli
extraparlamentari e per le femministe. Per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa cattolica, gli anni
successivi al Concilio Vaticano II hanno visto emergere un confronto culminato nel giugno 2015
nella visita di papa Francesco al Tempio valdese di Torino. Al di là dei punti di contatto in materia
d’esegesi e di teologia, un terreno di confronto è oggi la questione migratoria, oggetto dell’azione
congiunta dei «Corridoi umanitari», il progetto promosso dalla Federazione delle Chiese
evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio.
Le distanze sono, invece, ancora marcate quando si tratta di organizzazione della Chiesa – il ruolo
delle donne, per esempio – di bioetica e di laicità. Negli ultimi decenni, la Chiesa valdese si è
distinta proprio per le posizioni aperte e costruttive, anche dal punto di vista evangelico, sulle
unioni omosessuali e di fatto come pure sul testamento biologico. I valdesi rimangono, insomma,
una minoranza controcorrente e dinamica in una società multireligiosa che si rivela sempre alle
prese con i propri ritardi storici e con le nuove sfide culturali.
Alessandro Santagata in “il manifesto” del 21 agosto 2016