Pubblichiamo una sintesi dell’intervento che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha pronunciato al convegno in Cassazione sul tema «Il processo di mafia trent’anni dopo».
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L’influenza della mafia sull'economia si è ormai estesa dal Meridione d'Italia ad altre zone del Paese. Pur con differenze, anche significative, il risultato è sempre lo stesso: dinamiche economiche distorte, concorrenza schiacciata e, specie in tempi di crisi, la sirena del denaro a basso o a nessun costo. Lasciare fuori dalla porta i mafiosi dopo averne accettato il denaro, è illusorio quanto l'idea che, superate le difficoltà, si possa restituire il prestito e liberarsi di soci scomodi. Non è così: il mafioso non si farà più estromettere e ricorrerà alla violenza, se lo riterrà necessario.
La mafia entra in contatto con l'impresa imponendo il pizzo alle attività commerciali e tangenti sull'importo dei lavori acquisiti.
Denaro utile alle cosche, certo, ma pagare significa anche riconoscerne la sovranità su un territorio o un settore economico.
Tra gli imprenditori che pagano il pizzo non ci sono solo “vittime” poiché talora sono essi stessi a voler interagire con i boss in base al calcolo (errato) che, giacché si paga, tanto vale usare l’ombrello protettivo mafioso per conseguire sul mercato vantaggi altrimenti impossibili.
In sintesi, alla base di questo patto c’è una convenienza economica ormai riconosciuta dagli stessi imprenditori.
L’alleanza con le imprese è strategica perché permette alle mafie di “agganciare” componenti della società cui non avrebbero altrimenti accesso ed entrare in questa rete di contatti è la loro vera forza, il loro “capitale sociale”. Accanto all’alleanza con le imprese c’è quella con la cosiddetta “area grigia” formata da esponenti di diverse categorie sociali che fiancheggiano le mafie, senza farne direttamente parte. I legami con politici, amministratori e pubblici funzionari, servono ai mafiosi per deviare flussi di denaro, appalti, risorse a loro favore e verso gli imprenditori loro prestanome. Analogamente, per fare affari e riciclare denaro, il mafioso ha bisogno di acquisire le competenze e le relazioni proprie dell’area grigia.
Fino a qualche anno fa, questa analisi era o sembrava valida per le sole regioni di origine delle cosiddette “mafie tradizionali” (cosa nostra, ´ndrangheta, camorra), che là esercitano un significativo controllo del territorio. Oggi, come attestano inchieste e sentenze, l’analisi è valida anche per zone non trascurabili del Centro e del Nord d’Italia, anche se in queste ultime le organizzazioni non esercitano affatto un controllo “militare” del territorio, ma contano piuttosto su importanti reti relazionali, su un numero incredibilmente alto di uomini-cerniera in ogni categoria professionale, oltre che su un complessivo deterioramento del contesto imprenditoriale (e sociale latu sensu). Ha osservato lo studioso Enzo Ciconte in un recente saggio, che per la cultura imprenditoriale del Nord Italia «l’intervento dei mafiosi è un costo e lo considera un affare commerciale come un altro, senza badare alle conseguenze e senza un minimo di etica che pure dovrebbe avere come operatore economico», aggiungendo che questi imprenditori spesso ricorrono prima alla corruzione e poi alla ´ndrangheta, senza tuttavia poterne controllare le dinamiche avendo consapevolezza di una possibile deriva violenta, che trasforma il rapporto in assoggettamento e omertà. Ed è questo, in sintesi estrema, il metodo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p.
Nella sua storia, la criminalità organizzata ha sempre fatto ricorso alla corruzione, fermo restando che mafia e corruzione sono due realtà diverse e non sempre dove c’è l’una c’è anche l’altra. L’elemento di novità è che la corruzione è diventata strumento e manifestazione dell’intimidazione mafiosa. Chiarissima, su questo punto, la Cassazione nella sentenza emessa nel procedimento “Buzzi Salvatore e altri”, il c.d. Mafia capitale (ma il principio di diritto è valido in generale): «Ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento e omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio».
L’attività corruttiva viene scelta innanzitutto perché gli atti violenti allarmano l’opinione pubblica e attirano l’attenzione di polizia e magistratura; inoltre, la mescolanza tra il mondo mafioso e quello “altro” genera influenze reciproche così che le mafie accettano le regole, a volte mutuano persino il linguaggio, dei loro interlocutori. I criminali, infine, stanno bene attenti a non mettere in difficoltà con episodi violenti l’amministratore o il funzionario amico, perché questi possa “aggiustare” la gara d’appalto con i “suoi” metodi e i “suoi” tempi.
Come affrontare in modo efficace l’intreccio fra mafia, corruzione, grande evasione fiscale, riciclaggio? Mentre per la mafia esiste un sistema repressivo e sanzionatorio efficace, non altrettanto si può dire per i reati contro l’economia e la Pa, come testimonia l’esiguo numero dei processi e dei soggetti condannati.
Non sembri strano ma – come in passato – il primo passo per contrastare le mafie è quello di riconoscerne l’esistenza, senza lasciarsi ingannare dalla mancanza di episodi tipici della loro presenza (incendi, aggressioni, addirittura omicidi). Senza, cioè, restare vittime dello stereotipo dell’immutabilità dei comportamenti, che invece i criminali modificano e rimodulano a seconda delle esigenze.
È chiaro che la repressione penale da sola non basta. Servono anche una svolta culturale che coinvolga soprattutto le nuove generazioni, una ridefinizione di regole generali e, a monte, riconsiderare il tema delle scelte e delle responsabilità individuali. La repressione – seria, efficace, continuativa – resta però indispensabile perché non solo accerta e punisce le responsabilità dei singoli, ma crea spazi di libertà, di agibilità politica ed economica, a disposizione della società civile. La quale – ove davvero esista e se lo sa fare, anche esponendosi e rischiando – potrà occupare quegli spazi bonificati, per evitare che al termine di processi e condanne, tutto torni come prima.
Ma se il punto di forza delle mafie sono le relazioni con il mondo “altro”, bisogna agire su entrambi i contraenti per spezzare il patto di convenienza. Il primo contraente è la mafia e qui sappiamo cosa occorre: indagini, arresti condanne, sequestri e confische (anche se legislatore e giudici prestano crescente attenzione alla salvaguardia dell’impresa, in quanto fonte di lavoro e ricchezza). Gli imprenditori hanno imboccato da tempo la strada di un sistema premiale che vorrebbe rendere “più conveniente” stare con lo Stato che non a fianco della mafia, attraverso strumenti come il rating di legalità o le white list. Quanto alle altre categorie (professionisti, funzionari, politici, pubblici amministratori, senza escludere magistrati e forze dell’ordine), occorre partire dall’assunto che nessuna di esse è immune dal rischio del contagio mafioso e che esiste al loro interno un problema di crisi di valori e di scelte etiche individuali.
Si deve infine radicare il principio secondo cui legalità ed efficienza sono due facce della stessa medaglia. La giusta tensione verso la legalità non può portare a evitare responsabilità o a creare ostacoli (tali da stimolare la corruzione) come, al contempo, efficienza ed emergenza non possono diventare il pretesto per bypassare ogni controllo e vivere la legalità come intralcio al progresso.
L'autore è Procuratore della Repubblica di Roma