Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
21/11/2016 06:30:00

La cultura che fa "mangiare" e l'esempio di Erice

In questi giorni sono stato a Varese, dove ogni anno viene organizzato “Glocal”, il festival del giornalismo digitale. E’ stata l’occasione, per chi lavora nell’informazione digitale, di fare il punto della situazione. Di capire quali sono i rischi per il mestiere che si nascondono in quelli che una volta chiamavano “nuovi media”. Si è dibattuto molto sulla credibilità dell’informazione digitale, sui rischi che i social media portano con sè per l’opinione pubblica, sui doveri dei giornalisti e come fronteggiare l’epoca della “post-verità”. La situazione non è semplice, è spinosa e non poco per chi fa il nostro mestiere. In un momento di velocità assoluta, in cui i social network, spesso, più che creare spazi di democratizzazione globale sono i principali colpevoli di quella post-verità, in cui la bufala viene presa per buona e nella gente non c’è la voglia di impegnarsi in un sacro santo fact checking, ecco, in questi momenti il percorso sarebbe quello di un ritorno alle origini. Di tornare a impegnarsi sulla verità, e sull’approfondimento dei fatti. Di applicare quello “slow-journalism” che su tp24.it proviamo a portare avanti da anni, ossia il ragionamento e l’analisi, con calma e senza frenesia, di quello che ci accade intorno. In sostanza, occorre tornare a riscoprire, per il giornalista, la propria professionalità. Ecco, bisognerebbe tornare ad investire su noi stessi, sul capitale umano e la ricerca di un racconto ragionato sulle cose. Il giornalismo sta morendo, e la ricetta è non tornare alle origini ma far tesoro e applicare con nuovi mezzi quello per cui il giornalista nasce: raccontare e unire i puntini. Ecco, mentre mi trovavo a Varese vengo raggiunto da una buona notizia. Erice è nella short list delle 10 città che concorreranno al titolo di Capitale Italiana della Cultura per il 2018.


Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo nei giorni ha diramato sul sito istituzionale, la lista delle dieci finaliste segnalate dalla Commissione di giuria. Sono Alghero, Aquileia, Comacchio, Erice (Unione dei Comuni Elimi Ericini per la precisione), Ercolano, Montebelluna, Palermo, Recanati, Settimo torinese e Trento.
Le dieci città si giocheranno il titolo di Capitale italiana della Cultura 2018 e poi si concorrerà ad individuare la Capitale europea della cultura 2019.
Alla vincitrice verrà assegnato un contributo di 1 milione di euro e l'esclusione delle risorse investite nella realizzazione del progetto dal vincolo del patto di stabilità.
Quella di Erice e del paesaggio trapanese è una candidatura che nasce dal lavoro di una equipe di amministratori, professionisti, associazioni e personalità del calibro di Antonino Zichichi, ad esempio. Un lavoro durato mesi, che potrà raggiungere l’ambito risultato il 31 gennaio, quando verrà eletta la Capitale Italiana della Cultura.
E’ un’occasione importante per un territorio che negli ultimi anni ha avuto spesso un rapporto conflittuale con il concetto di cultura
, inteso in beni culturali, conoscenze e tradizioni di una terra che è stata crocevia di mille popoli. Il capitolo degli investimenti per la cultura negli ultimi anni si è sempre più ridimensionato, con gli amministratori che hanno preso per buona la vecchia e sbagliata formula “di cultura non si mangia”. E’ un errore fatto non solo alle nostre latitudini, quello di non considerare la conoscenza e la cultura fonti di “ricchezza”. Sempre in questi giorni, chi pensa che “di cultura non si mangia”, può essere smentito da uno che non è proprio un’umanista fine a se stesso. Anzi, è il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco.
In un suo intervento su Repubblica il governatore di Bankitalia parte da ciò che è mancato in questi anni all’Italia, finendo per ragionare sul ruolo che non è stato dato alla conoscenza come elemento principale su cui investire. Vi propongo uno stralcio interessante.


Servirà più cultura, e bisognerà superare una buona volta e definitivamente la barriera che da noi separa la cosiddetta cultura "umanistica", da valorizzare, da quella "tecnico-scientifica", su cui investire. Al termine "cultura", dalle molte sfaccettature e spesso generatore di equivoci (ma ricordiamo quanto bassa è da noi la "spesa culturale" – nella definizione, pur limitata, di spesa in libri non scolastici, giornali e riviste, cinema, concerti, teatri, musei – con una caduta da 30 a 25 euro mensili tra il 1997 e il 2011, a fronte di un aumento di oltre il 20 per cento della spesa media complessiva), io preferisco il termine, in un'accezione ampia inclusiva delle nuove competenze, di "conoscenza". E se oltre i fatti sono importanti i valori va sottolineato con forza che oltre a un impatto positivo sulla crescita economica ne possono derivare contributi fondamentali per il rafforzamento del senso civico e la comprensione dell'importanza del rispetto delle regole e degli altri, per l’affermazione del diritto contro l'accettazione passiva di livelli di corruzione inaccettabili e dannosi, per non parlare di intollerabili abusi e di pericolosi atteggiamenti nei confronti della criminalità organizzata. Ma bisogna essere consapevoli che non si tratta solo di chiedere allo Stato di fare la sua parte, e quindi "di più". Si tratta di maturare questa consapevolezza a livello collettivo, individui e imprese, giovani e anziani, dipendenti e non. Perché investire in cultura, in "conoscenza", è la risposta migliore che possiamo dare alle difficoltà di oggi e all'incertezza del futuro, consapevoli che finirà per ripagarci, con gli interessi. Perché, come scriveva ormai quasi tre secoli fa Benjamin Franklin nel suo Almanacco, "An investment in knowledge pays the best interest", il rendimento dell'investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro investimento.


Ora, Visco è Visco, è il governatore della Banca d’Italia, è uno del sistema, ma alcune cose sono condivisibili in pieno. La cultura e la conoscenza sono gli unici strumenti di comprensione delle regole e deterrenti di atteggiamenti corruttivi e criminali. Investire nella cultura è l’unica salvezza. Per questo un percorso come quello di Erice deve essere affrontato con serietà.


Francesco Appari