Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere, 2017), la «prima vera» silloge di Franco Arminio da cui oggi raccogliamo la poesia della settimana, si presenta ai lettori come un breviario di fede civile.
In un’età in cui il digitale ha spodestato il Vecchio Dio, affermandosi come nuova religione universale, Franco Arminio si confessa poeta, non uomo. Il poeta è una sorta di preuomo, una bozza, un tentativo non riuscito di accedere all’umano e alla realtà, ed è forse per questo motivo che incessantemente girovaga per constatare la salute e la malattia della terra in cui vive: darle voce di versi significa riscoprire e restaurare la sacralità disoccupata che abita nei paesi e dentro i nostri corpi.
«Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra): i versi del poeta di Bisaccia sono le ossa e gli occhi di chi, di fronte all’esodo diretto verso la Rete, esorta l’uomo a percepirsi come arto di una community non virtuale che continuamente cresce non perdendo mai l’anima delle sue radici.
Ho un alloggio di fortuna:
il mio corpo.
Ieri sera non sapevo dove sistemarmi:
lo stomaco bruciava,
gli occhi erano spine,
la lingua amara,
nelle ossa
temporali.
Bisogna prendere casa nel mondo,
dare confidenze a un muro,
alla curva di una strada.
Così quando moriamo
muore il corpo
e noi siamo immortali
perché siamo in un rovo,
nella tasca di un cappotto,
nella gamba di un tavolo.
Marco Marino