È difficile accettare, o anche solo capire, come sia possibile che in Italia non si riesca ancora ad
avere una legge sul fine vita che eviti drammi come quello di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro,
di Walter Piludu e, proprio in questi ultimi giorni, del dj Fabo. Perché il Parlamento continua a
rimandare, posticipare e perdere tempo ogniqualvolta si parla di temi etici tenendo in ostaggio tutti
coloro che aspettano solo di poter esercitare la propria autonomia e la propria autodeterminazione?
È mai possibile che si debba sempre cedere alle pressioni di chi — non si capisce se per ottusità o
per totale mancanza di empatia e compassione — insiste a invocare il principio di dignità senza
rendersi conto che è proprio la dignità umana che viene calpestata quando si costringe una persona a
restare in vita, anche se «essere immobilizzato in una notte senza fine», come dice appunto Fabo,
non è più vita ma sofferenza, non è più speranza ma disperazione, non è più futuro ma nostalgia?
Come si può restare sordi e ciechi di fronte al dolore di chi vorrebbe solo smettere di soffrire?
È questa la carità in nome della quale alcuni parlamentari vorrebbero bloccare per sempre
l’approvazione della legge sul testamento biologico e le direttive anticipate?
Sono anni, ormai, che il dibattito politico si incaglia ogni qualvolta si parla della morte, del diritto di
andarsene degnamente quando non c’è più niente che ci trattenga in questo mondo, dell’ingiustizia
e dell’impotenza di fronte alle quali ci si trova quando altri pretendono di sapere meglio di noi
quello che è giusto o meno fare. Sono anni che il fronte del “no” invoca il concetto di “sacralità
della vita”, facendo finta di non sapere che la dignità di ognuno di noi si fonda sulla nostra
autonomia, e che nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare le nostre scelte e i nostri desideri.
Sono anni che la loro ostinazione costruisce muri invalicabili tra la politica e la realtà, la
complessità dell’esistenza e la logica semplicistica dei valori astratti. E allora si mischia tutto e si
confonde il “far morire” con il “lasciar morire”, la sedazione profonda con l’omicidio, la dignità
con l’intransigenza.
La vita non ci appartiene, certo. Ma ci attraversa da quando nasciamo costringendoci a fare i conti
non solo con tutto quello che abbiamo e siamo, ma anche, e forse soprattutto, con quello che non
abbiamo e non siamo. Cresciamo e impariamo faticosamente a dire “io”. Ci scontriamo con le
difficoltà dell’esistenza e scopriamo la bellezza del “diritto di essere noi stessi”. Non tutto va bene
nella vita, anzi. Ma almeno resta la speranza di poter cambiare, evolvere, risollevarsi, ricominciare.
Almeno fino a quando il nostro corpo ce lo permette e non ci si scontra con l’irreparabile di un
incidente o di una malattia incurabile. E allora? Perdiamo per questo il nostro diritto a dire “io”?
Dobbiamo per questo rinunciare ad essere soggetti della nostra vita fino in punto di morte?
Chi lo pensa, ha capito molto poco non solo dell’esistenza, ma anche dell’etica della cura. Prendersi
cura non significa imporsi, ignorare, far finta di nulla. Prendersi cura significa accompagnare fino
alla fine, seguendo i desideri di chi ci è accanto anche quando non li capiamo o vorremmo che
fossero diversi. Come fa Frankie, l’allenatore di Maggie nel bellissimo film di Clint Eastwood,
Million Dollar Baby: quando Maggie, dopo un terribile incidente sul ring, si risveglia in ospedale e
si ritrova paralizzata, incapace del minimo movimento e attaccata a un respiratore artificiale,
Frankie vorrebbe che la ragazza reagisse e continuasse a vivere. Ma Maggie ha già perso tutto, a
parte i ricordi della boxe e la gioia delle vittorie: «Non lasciarmi sdraiata qui finché non sentirò più
la voce dei miei tifosi». E lui stacca il respiratore sussurrando «mio tesoro, mio sangue». È l’unico
ad aver amato Maggie. Ed è l’unico a prendere sul serio il suo desiderio di andarsene, anche se gli
costa più di quanto sia pronto ad accettare.
Marta Marzano - 'La repubblica' del 27 febbraio 2017
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