Saul Bellow parlava di essere sacro, Joyce, invece, di male necessario: la figura del padre nella storia della letteratura occidentale ha sempre goduto di alterne fortune fra delitti inconsapevoli (linea-Edipo) e agiografie (linea cristiana).
Oggi leggiamo nella terza sezione, Mediterraneo, di Ossi di seppia di Eugenio Montale l’ancestrale sentimento di rivolta che lega il poeta genovese al padre-mare, simbolo di felicità naturale, progenitore di tutti gli esseri viventi.
Giunge a volte, repente canta il distacco definitivo dal «cuore disumano» del mare, canta la scelta di un uomo non più disposto ad abbandonarsi alle giovanili idee della «patria sognata», del «paese incorrotto» sempre ispirate da quelle paterne acque. Nasce nell’animo che accetta l’esilio sulla terraferma un sentimento atavico, forse l’unico vero legame genealogico: la rancura, parola che ci arriva dall’antica tradizione stilnovista e indica l’odio coperto (rancorem), l’ostilità che ogni figlio cova per assimilare e oltrepassare il se stesso del futuro ovvero suo padre.
Giunge a volte, repente,
un'ora che il tuo cuore disumano
ci spaura e dal nostro si divide.
Dalla mia la tua musica sconcorda,
allora, ed è nemico ogni tuo moto.
In me ripiego, vuoto
di forze, la tua voce pare sorda.
M'affisso nel pietrisco
che verso te digrada
fino alla ripa acclive che ti sovrasta,
franosa, gialla, solcata
da strosce d'acqua piovana.
Mia vita è questo secco pendio,
mezzo non fine, strada aperta a sbocchi
di rigagnoli, lento franamento.
È dessa, ancora, questa pianta
che nasce dalla devastazione
e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa
fra erratiche forze di venti.
Questo pezzo di suolo non erbato
s'è spaccato perché nascesse una margherita.
In lei titubo al mare che mi offende,
manca ancora il silenzio nella mia vita.
Guardo la terra che scintilla,
l'aria è tanto serena che s'oscura.
E questa che in me cresce
è forse la rancura
che ogni figliuolo, mare, ha per il padre.
MARCO MARINO