Dopo la loro morte è strana abitudine continuare a contare gli anni delle persone. Certo lo si fa per sentirle ancora presenti nella nostra quotidiana realtà, per tentare di ghermire, almeno per un giorno all’anno, la condizione impossibile della resurrezione della carne in una semplice frase: «avrebbe compiuto ottant’anni oggi».
«Avrebbe compiuto ottant’anni» il 18 maggio appena trascorso la poetessa Jolanda Insana. Una donna magnogreca nel volto di roccia simile alle rughe del Taígeto e nella parola fendente, che diveniva arma della sua sciarra amara (“doloroso conflitto”) con l’esistenza. Era stata scoperta quarant’anni fa – correva l’anno 1977 – dal critico Giovanni Raboni, sconvolto dal convulso organismo dei suoi versi, e subito inserita nel «Quaderno collettivo della Fenice» di Guanda. Il titolo della sua prima raccolta: Sciarra amara.
Per sopravvivere, ogni giorno, vestiva i panni della pupara. Eppure mai le interessò di raccontare del senno perduto di Orlando o del coraggio di Lancillotto. Gli unici pupi del suo teatrino erano la morte e la vita, l’una faceva buchi l’altra tappi. Tappi che la vita produceva come testimonianza di ciò che aveva perduto, nell’estremo e ultimo tentativo di riportarlo alla luce tramite il ricordo.
La poesia che leggiamo questa settimana, Il peso nelle mani da La stortura (2002), vuole essere un tappo su un buco che la morte non riuscira mai a scavare completamente.
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ho vissuto come una bestia
ora posso cambiare testa e girarmi in avanti
e t’inseguo e ti spazzo
e nel fuoco ti getto
foglia verdente
acqua corrente
porta via questo male ardente
e stringo il nodo parlato
e ho il peso nelle mani
avendo per anni soppesato pane e farina
ma restituisco le chiavi
perché so quanto puzzano quei resti
di cui si nutre la memoria
tra le trine morbide della sua alcova
dopo il risveglio delle mandrie
pungolate dagli schiavi
trasportando bolsi animali nel sogno carri a vela
volano sui fossi
e cimano topinambùr e amaranti
MARCO MARINO