Oggi alle 21 all’Ex Convento del Carmine ci aspetta Letti di notte, la notte bianca del libro e della lettura. Nell’attesa scopriamo il sentiero poetico di un’altra protagonista dell’iniziativa: la poetessa palermitana Noemi De Lisi.
Luigi Pirandello nel 1915 sul Giornale di Sicilia pubblica un fantasmatico colloquio fra un uomo e la madre morta. Il figlio è incredulo, sopraffatto dalla visione, e chiede subito alla donna il perché di quel definitivo distacco dalla vita. La risposta porta a ripercorrere un luttuoso rapporto con l’esistenza, che trova la sua unica ragione nell’aver vissuto un frangente d’eterno solo per riuscire a donarlo alla vita che portava in grembo.
A quelle parole il figlio risponderà: «Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te».
È trascorso più di un secolo. Noemi De Lisi nel 2017 per Ladolfi Editore pubblica un libro di poesie, dal titolo La stanza vuota, e mediante versi di fraseggi lunghi trasforma la stanza di una casa in un cenotafio, una tomba vuota, o - sarebbe più corretto pensare - in un utero di ritorno dove l’io è capace di ritrovare il limbo della non-vita: la poesia diventa una sorta di formula magica per riconnettersi con «l’altro al di là di sé».
Nel capitolo IV della prima sezione della silloge («Io e mia madre»), che leggiamo sotto, De Lisi sovverte un’eco pascoliana. I sistri d’argento de L’assiuolo, legati al culto della dea dei morti Iside, hanno preso forma di forchetta in una ritualità nuova: non importa più sapere se è possibile o no varcare le «invisibili porte che forse non s’aprono più», perché queste ormai restano spalancate nel nostro quotidiano. Adesso rimane da comprendere in che modo convivere con il sentimento dell’oltre-vita che ci alberga dentro.
***
La forchetta d’argento era un vezzo di vecchiaia
l’unico decoro di luce sulla tovaglia di cotone.
Due volte al giorno gliela posavo vicino al piatto
con lo stupore di un fremito d’invidia: “Ecco”.
Lei si specchiava sui quattro denti lunghi e sottili
mentre l’ornamento del manico le spariva nel pugno.
Quando era felice con le rughe di beffa nel viso,
faceva il verso di puntarmela contro: “T’infilzo, t’infilzo”.
E nel gioco mi avvicinavo, porgevo il petto spoglio
e sentivo l’argento pungermi piano lo sterno.
L’indomani sulla tavola mancava la sua forchetta:
“Com’è possibile averla dimenticata?”, mormoravo
mentre facevo per alzarmi, aprire il cassetto, prenderla.
E invece rimanevo seduto picchiettando nervose le dita,
capovolgevo la mia forchetta d’acciaio sul piatto,
sottecchi guardavo il suo posto vuoto: “Adesso, posso”.
Felice anche se col viso immoto aprivo lento il cassetto,
e mi sembrava strano come se non lo facessi da tempo.
Mi rigiravo fra le mani la forchetta d’argento, la stringevo.
Aveva il metallo opaco e le punte dei denti annerite.
La mettevo sul petto: “T’infilzo, t’infilzo”, cominciavo,
ogni volta col desiderio di spingere più forte di lei.
MARCO MARINO