L’ossimoro è la dimensione entro cui trova inizio l’esperienza letteraria di Luigi Pirandello. In bilico fra il titanismo artistico e il vacuo orrore della realtà, per il futuro autore de “Il fu Mattia Pascal” il 1889 è una data spartiacque. Sono due gli accadimenti che rivoluzionano sia la vita dello studente universitario di ventidue anni, proveniente dalla contrada Cavusu di Girgenti, che l’indirizzo del pensiero europeo del XX secolo.
Il primo è una lite. Pirandello era iscritto ai corsi di lettere dell’università di Roma, di cui docente di letteratura latina nonché magnifico rettore era Onorato Occioni. Il professore dal “magistero canoro” - come lo definisce, da allievo, Gabriele D’Annunzio - durante la traduzione del “Soldato fanfarone” di Plauto commette uno strafalcione, che il giovane Pirandello non gli perdona. A seguito dello scontro accademico, Occioni rimane seduto alla sua cattedra; il discente siciliano, invece, è costretto a trasferirsi a Bonn. E mai costrizione sarà tanto felice per le arti: la parentesi tedesca è l’opportunità migliore per aprirsi alla filosofia contemporanea transalpina e ai primordi degli studi psicanalitici, scrollandosi di dosso la ruggine del periodo verista.
Il secondo accadimento è meno noto, ma altrettanto significativo. In quello stesso anno, infatti, Pirandello esordisce in letteratura con il libro di poesie “Mal giocondo”: il primo ossimoro della sua lunga carriera. Il titolo è ripreso da un verso dell’umanista rinascimentale Agnolo Poliziano ("Sì bel titolo d'Amore ha dato il mondo/ a una cieca peste, a un mal giocondo") e l’animo da una corrente anti-modernista, laddove il moderno è inteso come visione di un presente avvinto dalla fredda tirannia della Tecnica, colpevole dell’eccidio delle antiche Muse.
Oggi, per celebrare il 150° anniversario della nascita del “figlio del Caos”, leggiamo il penultimo componimento di quella raccolta. Potrebbe apparire l’autocelebrazione di un’opera ancora al suo principio, eppure la poesia riesce a restituire la voce di un sentimento sempre attentamente nascosto dietro la barriera della pagina: la paura. Pirandello ne fu pervaso per tutta la sua esistenza e lungo tutta la sua produzione. Paura del padre, della malattia della moglie, dell’amore per Marta Abba, della scrittura, del conseguimento e della perdita della gloria. Non erano la rappresentazione dei gerarchi fascisti i giganti di cui parla nell’ultimo, definitivo e testamentario lavoro teatrale, “I giganti della montagna”: quei colossi erano i mille volti della dilacerante angoscia di un uomo solo che finalmente confessandosi al dramma lo termina con le parole: “Io ho paura! ho paura!”
MARCO MARINO
***
È troppo poco un secolo. Mill’anni,
due, tremil’anni sono troppo pochi.
Voglio viver di piú. Voglio in eterno
far la memoria mia famosa e sacra.
Tardi nepoti dei nepoti miei,
io per voi scrivo, e mi rivolgo a voi.
(Tanto, i presenti badano a tutt’altro,
gente seria, sennata e positiva,
e non sanno che farsene di versi.)
Quegli autori, che scrissero al tempo
dei nei di seta nera e de le bianche
parrucche dal codino saltellante
dietro la nuca, si finsero mai
per avventura posteri conciati
sí come noi? Chi sa! Posteri, certo,
che al difetto d’un candido codino,
con una coda d’asino o di un lupo
furbescamente ascosa entro i calzoni
han supperito, eh via! già ne hanno avuto
ma lo sa Iddio (per modo avverbïale),
tardi nepoti dei nepoti miei,
che sorte mai di coda avrete voi!
Comunque sia, vi prendo con le buone;
e chiudo gli occhi e sogno l’avvenire:
Che posteri per bene! Da per tutto,
ovunque l’occhio volgo, è il libro mio;
in ogni scuola, in ogni biblioteca,
ed in ogni domestico scaffale,
ne le vetrine dei libraj, tra i novi
volumetti dei miei bravi nepoti,
proprio ovunque, perfin nei salumaj.
Su le nuove facciate dei palagi;
giú giú da le grondaje al marciapiedi,
son trascritti i miei versi; e su ogni porta
Mercurio novo, ride ai rispettosi
nepoti la mia imagine adorata.
Abolite le carte da parato,
le pareti domestiche son tante
dei miei volumi squadernate pagine.
Ogni onesto mortale sa a memoria
questo o quel canto, a seconda dei gusti,
e se lo rode seco pienamente.
Per le vie, per le piazze, in su la sera,
odo come un susurro d’alveare,
un basso salmeggiar d’anime buone:
Sono i posteri miei, con sotto il braccio
il mio libro immortal, che, serî, vanno
per la città in riposo recitando,
a un bel chiaro di luna, i versi miei.
Ma ahimé, s’annebbia il sogno! Che è accaduto?
Mi scampi il cielo! È il finimondo! il fini...
Or che ci penso! e come farò io
quando il sol sarà spento e l’altre stelle,
e non avrò piú posteri né fama?