“Dentro la tempesta” è l’opera teatrale che per tre serate consecutive (13-14-15 giugno 2017) Massimo Pastore (l’ideatore del TAM-TeatroAbusivoMarsala) ha messo in scena nel sito di “Baglio Palma” (C.da Bambina di Marsala). E per ogni serata, il pubblico non si è fatto desiderare né per il numero, né per i consensi, né per le tensioni che hanno stuzzicato il senso comune e le abitudini dello spettatore passivo. Il rappresentato non è mai scisso né dai tempi, né dai luoghi, né dai vissuti psico-sociali e storici di ognuno di noi e dalle contraddizioni materiali che li attraversano e li agiscono. Di questo lavoro (un caso di attacco pensato!), contrariamente alla stessa dizione in calce alla locandina, non si può dire però che si tratti di un libero adattamento (il regista Pastore non ce ne vorrà!) de “La tempesta” di Shakespeare. Meglio dire che siamo in presenza di una nuova opera, un’opera del regista che si è fatto anche autore. Della ri-scrittura, eloquente, in tal senso, è lo stesso titolo della rappresentazione e il fatto che l’azione teatrale pone l’interrogativo di essere ‘con’ o ‘contro’ la “tempesta” dei conflitti di “Dentro la tempesta”). Il lavorato è stato sì il montaggio di altri pezzi – prelievi semilavorati (citazioni) –, tratti da altre opere dello stesso Shakespeare (Romeo e Giulietta, Macbeth, Amleto, Otello, Riccardo III) e da altri (“Il grande inquisitore” dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij), ma la ri-configurazione degli innesti ha messo a nuova cultura gli stessi. Ricostellando l’ordine delle cose, il discorso simbolico-semiotico trovato (verbale e non verbale) come risultato dell’azione significante non ci mette di fronte alla ripetizione del già detto (non lascia cioè immutato la dicibilità e la visibilità delle parole e delle immagini).
Quadro d’interno della famiglia dei folli, i molti mostruosi della letteratura di un tempo e delle sue “tempeste”, i personaggi ci si presentano come figure po(i)eticamente riorganizzati, rivitalizzati. Pezzi ricompattati e riconfigurati a nuova vita (comunque immanenti alle/a tempeste/a come matrice e strategia allegorica di immagini in movimento), i materiali, riusati, significano diversamente per uno spettatore contemporaneo che è munito di altri schemi.
Così questo testo del “Dentro la tempesta” è un’altra opera e un altro intreccio artistico. Una com-posizione filtrata (sintassi logica e semiotica fuori dal suo contesto d’origine) e coniugantesi con i linguaggi sonori e scenografici scelti ad hoc. Una saputa regia che sfrutta la tecnica del montaggio per riordinare costruttivamente i materiali presi in prestito con a tergo e avanti le contraddizioni che non sono mai solo personali e temporalmente museificati. Un tempo presente dunque (quello del regista-autore, Massimo Pastore) che va a visitare un altro tempo storico e il suo contesto per riattualizzare l’azione di un qualcosa che è rimasto sospeso nella memoria e nell’immaginario (‘rimemorazione’) e che richiama al risveglio. L’azione cioè drammatica est-etico-politica del conflitto tra il sogno delirante, la realtà e il “reale” necessitante dei limiti inaggirabili (il reale che sfugge ad ogni presa simbolica, J. Lacan). Un’azione cioè che pur intrisa di “malinconia dell’essere” (insoddisfazione dello stato di cose presente), colpendo lo spettatore odierno (e il suo “Io”, come quello d’epoca) nel cuore della seduzione estetizzante che lo instupidisce, mira a svegliarne la mente e deciderla a una presa di posizione che escluda la separazione netta tra giudizio estetico e giudizio politico. Dopotutto entrambi sono uniti dal rapporto che esclude/include o include/esclude le parti in lotta).
In quest’opera teatrale infatti non c’è di mira il divertimento leggero del solito mercato emozionale, né il bello o il brutto della percezione soggettiva, o l’offerta di una qualità dell’opera quale essenza astorica (propria solo alla struttura formale) di “Dentro la tempesta” e oggetto di un’intuizione simpatetica. Per dirla con Alain Badiou, c’è invece una “inestetica” che circola sovversiva; cioè un’estetica che non vuole surclassare la riflessione critica e il pensiero agente ma sollecitarne la tensione dirimente nella lotta tra le fughe, le fratture, i traumi del reale e i tagli che l’ordine delle idee (il progetto di Prospero) subisce dalla logica dell’evento temporale. L’evento fenomenologico è assolutamente contingente, e la sua logica è tutt’altro che dominabile. Basterebbe per questo tener d’occhio l’identità “costretta (violentata)”di due dei personaggi chiave di “Dentro la tempesta”. Uno è Ariel (forze naturali personificate) che, sebbene al servizio momentaneo di Prospero, gli si rapporta con chiara, leggera e pungente insofferenza. Non sopporta la volontà di dominio incontrastato del signore e padrone che ne limita la libertà e programma movimenti ad effetto. Il calcolo delle conseguenze non gli sono proprie (le potenti forze naturali non hanno scopi). L’altro è Calibano, l’indigeno dell’isola del tesoro (il miraggio dell’isola felice di utopia, l’utopia della vecchia speculazione e ora quella della tecno-scienza). Anche Calibano (figlio di una strega) è stato assoggettato dal viaggiatore e colonizzatore Prospero e reso deforme. Iperbolicamente grottesca nel suo dinamismo fuori riga, la nuova identità schiavizzata di Calibano – che il viaggiatore civilizzatore (il politico e studioso delle arti tecno-liberali della modernità delle esplorazioni e della nascita dello Stato sovrano moderno occidentale) gli ha cucito addosso – esprime solo insofferenza per i desideri negati o limitati. I suoi movimenti sgraziati e le parole in uso sono un chiaro segnale del malessere che gli ha provocato la conquista di classe di Prospero e del suo io “sovrano”. Così desidera e nutre in cuore la morte del conquistatore e del dominatore. Neanche il simbolo del comando magico della tecnica (simboleggiata dalla “bacchetta” che muove come un direttore d’orchestra) e l’esercizio della presunta sua superiorità umana quanto culturale e politica convincono l’indigeno (ex libero) dell’isola.
Oggi la tragedia si rinnova. La missione civilizzatrice dell’Occidente liberal-liberistico si presenta combattente l’inciviltà degli indigeni-migranti e degli stranieri d’ogni risma e causa, mentre gli Stati/Popoli sono classificati e assediati mediante i dispositivi del potere del sapere e del sapere del potere (sono le “divisioni” armate tra canaglie e amiche, gli amici del terrore e del fuoco amico o le politiche delle guerre pulite e umanitarie neocolonizzanti). Del resto non c’è potere senza sapere e conflitti di parte lì dove le identità degli elementi in campo sono in divenire e competizione egemonica. Non per niente all’interno della tempesta (oggi la tempesta dei mercati e delle borse) le forze della natura e della storia si rimescolano senza sosta e contingente necessità più o meno manovrata (della famiglia del “tempus”, la tempesta – nella sua doppia accezione – non lascia che le faccende umane generali e particolari siano esenti sia della aleatorietà del caso quanto della necessità di una forma e del suo posizionarsi).
Forse è il riso o il disincanto (?) – effetto non assente nell’azione scenica di “Dentro la Tempesta” – una delle armi improprie per difendersi dall’angoscia delle sconfitte e delle delusioni patite! Uno dei rosari autocritici finali di Prospero – che registra l’evanescenza dei sogni in frantumi del suo Io gigante e padrone spiritualizzato – lascia trasparire tutto ciò quando lo spettacolo si chiude con la ritirata dei due sovrani e il matrimonio che concilia (?) amore e rapporti di potere. I contendenti (le forze umane e non) si ritirano dietro il sipario (la fine dello spettacolo), ma la “tempesta” non si spegne.
In questo sipario-riparo la tempesta ha solo chiamato le sue forze eterogenee contrastanti a sosta temporanea, mentre la soluzione tramata e perseguita dell’Io di Prospero ci si presenta al contempo come uno scacco desublimatizzante! Desublimatizzante (giudizio autocritico e critico) è anche l’azione scenica lì dove la presenza e l’atto de “Il grande inquisitore” dostoevskijano chiaramente indica che nessuno fra gli uomini agenti è esente da responsabilità (come altrove sa il poeta Goethe) e colpevolezza (neanche il gioco degli specchi e la stessa innocenza sono fuori gioco).
Un’opera di Massimo Pastore, questa, dunque (per finire), che dice anche come la concezione romantica o spiritualizzante delle anime in cerca di simmetrie e in pena di fusione sia di per sé un non-luogo a procedere. A dispetto della creazione romantica ex nihilo, il nostro regista-autore ci si presenta così, infatti, come un ‘produttore’ (l’arte come produzione) che lavora dei materiali con certi procedimenti formali tutt’altro che divinatori. Un artefacere che ha trovato sì in archivio dei materiali (pezzi disponibili, matrici teatrali, citazioni) ma li ha montati tendenziosamente quali segni eterogenei in rimpasto e riconfigurati per una pubblica visione scenica controllata. Disciplinata negli effetti scenici quanto allegorizzante nella significazione materiale delle contraddizioni in campo, a ragione formalizza ricorrendo ai diversi personaggi presi in prestito (dalle opere di riferimento) per recitare la parte di competenza. “Dentro la tempesta” è una rappresentazione che combina ‘rimemorazione’ (i sogni che rimangono metamorfosi incompiute) e insieme un divenire storico oggettivante, espresso con il corpo simbolico del linguaggio e delle azioni simulate. Il corpo che ha dato vita scenica concreta alle cose è invece quello dei giovani attori (i giovani attori del TAM) che bellamente (pur non essendo professionisti del mestiere) hanno figurato suoni per gli occhi e azioni per l’ascolto come un punto di vista secco, inequivocabilmente inomologante. I loro nomi: Alessandra De Vita (Ariel), Giovanni Lamia (Prospero), Stefano Romano (Calibano), Nicoletta Vaiarello (Miranda), Clelia Barbanera (Trinculo e dopo Otello), Alessia Angileri (Stefano e dopo Riccardo III), Gaspare Grimaudo (Nostromo e dopo Amleto), Sara Russo (Giulietta), Sofia Del Puglia (Lady Macbeth), Bianca Luna Misso (monologo del Grande Inquisitore), Cosimo Clemenza (il re di Napoli), Enrico Governale (Gonzalo), Raysi Santana (monologo di Clarence dal Riccardo III), Alberto Marciante (il duca di Milano), Monica Gualtieri e Felicia Fici, Adele Errera (le voci dell’introduzione), Giulio Culicchia (marinaio).
Con o contro non si esce dalla tempesta delle contraddizioni. I suoi elementi del resto non hanno altra esistenza che nel crogiolo del tempus (tempo) che li tempera e li mescola, mentre il loro racconto teatrale è il metaraccontarsi artistico tramite immagini e segni che gli danno forma di conflitto. “Dentro la tempesta” è figlia di un montaggio di pezzi diversi, e la sublimazione estetica non è stato di certo il solo motore che ne ha generato l’azione e la messa in scena. La cosa avrà sicuramente disturbato qualche benpensante e bisognoso di consolazioni catartiche (quando va a teatro), in quanto non ama essere “colpito” nelle sue attese di morbidezza. Del resto in certi momenti storici la poesia di un testo, come scrive Jurij M. Lotman, “per essere fruito esteticamente deve avere obbligatoriamente una funzione non solo estetica”. E poi le opere del passato conservano delle potenzialità politiche come “tracce” collettive cui nessuno sfugge nel momento in cui la mano va a fargli visita per riappropriarsene. Le tracce sono l’apparenza di una lontananza che ci è vicina e non si acquetano nel velo del mistero insondabile.
Solo per inciso (e con buona pace per i benpensanti romantici della creatività ex nihilo), un autore come Walter Benjamin in cima ai suoi pensieri aveva il progetto di scrivere un’opera monumentale fatta con l’intreccio di sole citazioni. Il filosofo cinese Ciuangze ha scritto “un libro di centomila parole formato per nove decimi da citazioni” (Paolo Chiarini, Originalità e ‘citazione’, in Brecht, Lukács e il realismo, Laterza, 1970, p. 12). Lo stesso Bertolt Brecht, a dispetto della proprietà culturale e intellettuale (di moda ieri non meno di oggi, la febbre della proprietà delle singole parole di Humpty Dumputy) non si è risparmiato di utilizzare versi di Villon e Rimbaud (Paolo Chiarini, op. cit.). Con il che si vuole dire che c’è un comune collettivo politico-culturale cui nessuno sfugge e che funziona come un campo di potenzialità comune. Un comune patrimonio sociale e politico-culturale che non è proprietà esclusiva di nessuno.
Del resto (per non dimenticare) anche lo stesso Shakespeare, come qualsiasi altro grande, per le sue opere ha attinto alla memoria e ai lasciti preesistenti nell’immaginario collettivo e storico!
In un recente film visto a Marsala, e a cura di una programmazione dell’Associazione “Istantanee”, si tematizzava addirittura che le opere di Shakespeare non fossero di Shakespeare ma di F. Bacone. Si potrebbe ipotizzare e incoraggiare allora un incontro dialogico tra il gruppo del TAM e quello di “Istantanee” per continuare in questa stagione marsalese (2017) un confronto sull’universo delle letture e visioni che riguardano i lasciti di Shakespeare?
Antonino Contiliano