La difesa delle parti civili del processo Rostagno, ha chiesto, venerdì scorso, davanti alla Corte d’Assise di Palermo, presidente Matteo Frasca e giudice a latere Roberto Murgia, la conferma della condanna all’ergastolo per i due imputati, Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Il primo, capomafia di Trapani, è considerato il mandante dell’omicidio; il secondo, killer di Cosa nostra, è ritenuto l’esecutore materiale. In primo grado entrambi sono stati condannati al carcere a vita per l’uccisione del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, avvenuta il 26 settembre del 1988 nei pressi della comunità Saman a Lenzi.
Secondo gli avvocati Enza Rando e Domenico Grassa, difensori di Libera, le prove raccolte nel corso del dibattimento di primo grado hanno confermato e approfondito lo scenario in cui si è svolto l’omicidio e costituiscono un elemento solido che senza dubbio individua i responsabili dell’omicidio.
“La sentenza di primo grado – sostengono gli avvocati - individua l'organizzazione mafiosa “cosa nostra” quale entità mandante ed esecutrice dell'omicidio, non esclude la cointeressenza all'omicidio di altri gruppi di potere occulti, ma censura senza alcun dubbio le ipotesi delle piste alternative, e cioè la pista interna a Saman, la pista dei servizi informativi occulti o quella che vedrebbe esponenti di Lotta continua quali autori e mandanti dell'omicidio di Mauro”. Per le parti civili, la difesa degli imputati cerca di buttare giù una sentenza di primo grado che ha totalmente escluso le piste alternative alla mafia.
La storia trapanese di Mauro Rostagno si imbatte negli anni ’80 con una criminalità organizzata che, assieme a massoneria, mondo imprenditoriale, colletti bianchi inquinava la vita economica e sociale della città e dell’intero territorio. Rostagno da bravo professionista ha iniziato a raccontare i fatti illeciti di quel tempo e si è interessato in particolar modo ai fatti di mafia. Ha rivolto la sua attenzione ai casi dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, come del giudice Ciaccio Montalto, o l’attentato al giudice Carlo Palermo in cui rimasero uccise tre vittime innocenti, Barbara Rizzo e i suoi gemellini Salvatore e Giuseppe Asta, ed ancora l’uccisione del giudice Alberto Giacomelli.
A dare sostegno alla tesi dell’accusa sul fatto che ad uccidere Rostagno fosse stata la mafia, ci sono state diverse testimonianze di pentiti e collaboratori che hanno detto nel corso del processo che l’ordine di uccidere il giornalista fu dato dal capo della mafia trapanese, il castelvetranese Francesco Messina Denaro, padre del boss latitante Matteo Messina Denaro. Uno fra questi testimoni è Giovanni Brusca che ha detto che Rostagno era “una camurria” per Cosa nostra. Un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, ha detto di aver appreso dal boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate, della volontà di Cosa nostra di uccidere Rostagno.
“Rostagno con il suo lavoro – scrivono gli avvocati di parte civile Rando e Grassa - minacciava l'esistenza dell'organizzazione mafiosa perché metteva in pericolo il suo potere criminale, fondato su pregnanti ed indissolubili vincoli interni, fatti da rapporti di fedeltà e segretezza assoluti, che venivano disvelati al pubblico con un coraggio tanto disarmante quanto efficace".
Le prossime tappe del processo: il 15 dicembre la conclusione della difesa di Virga e il 16 gennaio quella di Mazzara, mentre la sentenza è prevista a febbraio 2018, a quasi 30 anni dalla morte di Rostagno.