di Leonardo Agate - Avvenne un domenica mattina dei primi di maggio dell’anno scorso, che l’aria di uno scirocchetto veniva dalle coste della Libia. Il busto di Garibaldi, posto fuori Porta Nuova, sul marciapiede fra gli alberi e i palmizi, ebbe come un brivido, impercettibile.
Chi avesse guardato non se ne sarebbe nemmeno accorto, o avrebbe pensato che gli occhi gli facevano uno scherzetto. Eppure, quell’iniziale brivido si ripeté, pochi minuti dopo, come se la terra sotto si smuovesse per un movimento tellurico.
Solo che non ci fu alcuna scossa di terremoto. Per un mistero, che ancora non è stato chiarito, il busto di Garibaldi tentava di spostarsi. Ma come poteva fare se era di marmo, e pesante e installato su un altro blocco quadrato e possente di marmo?
Mosse gli occhi, il Generale, come a cercare se qualcuno potesse aiutarlo, ma non vide nessuno in quel momento. Era di mattina presto, anche se si potevano già ammirare le Isole Egadi ad occidente sull’azzurro mare. La maggior parte dei marsalesi, a quell’ora, erano ancora a letto; altri erano partiti in macchina per la casa di campagna, dove tenevano il cane. Alcuni marsalesi, non molti, sentirono dentro di sé quel frizzantino aereo del tipico scirocco maggiolino. Furono soprattutto, o soltanto, i discendenti di quei picciotti che seguirono Garibaldi dopo lo storico sbarco a Marsala, e furono presi da un’improvvisa voglia matta di recarsi a Porta Nuova. Senza sapere come e perché, chi a piedi dalla città, chi in auto dalla casa di campagna si avviarono dove erano chiamati. E videro il busto di Garibaldi traballante. Capirono, senza capire, l’importanza del momento. Si appressarono all’Eroe e chiesero di avere comandi. “Portatemi al Monumento”, disse rude e affabile al modo suo il Condottiero. La cosa, però, non era agevole. Pure potendo trovare altri picciotti, o per meglio dire discendenti di picciotti, come avrebbero potuto trasportare quella decina di quintali al Margitello? là dove la memore amministrazione comunale aveva ultimato da un paio d’anni – il fatto di cui raccontiamo avvenne per la precisione 157 anni dopo lo sbarco - dopo quarant’ anni tra progettazione e realizzazione, probabili tangenti sugli appalti, proroghe della durata dei lavori, rinunce o fallimenti di imprese costruttrici, cause civili e amministrative con il Demanio proprietario dell’area su cui è sorto il monumento.
I picciotti pensavano al modo di trasportare l’augusto busto, quando, per miracolo, il problema dello spostamento si risolse da solo: tra il busto di Garibaldi e la sua base si cominciò a ispessire una nuova massa marmorea, che si realizzò in primo tempo con i fianchi dell’uomo, proseguendo poi con le gambe divaricate sulla sella del cavallo, bianco perché di marmo, come bianco era stato il cavallo donato dai marsalesi allo sbarcato l’11 maggio1860. Ad onore del vero, corse pure voce in città, allora, quando i mille e più di Garibaldi erano già sulle colline sopra Palermo, che un cavallo bianco era stato rubato la mattina dell’11 maggio nelle stalle del Conte Fici.
Garibaldi a cavallo, seguito dai picciotti e preceduto da qualcuno di loro che gli indicava la via, s’incamminò verso il lungomare e, svoltato là a sinistra, fatti trecento metri si trovò davanti al suo monumento. Che in effetti monumento vero e proprio non è. Date le traversie della costruzione, cui sopra abbiamo accennato, e alla mancanza di soldi sempre maggiore nelle casse del Comune, il grandioso monumento, progettato dall’illustre Arch. Emanuele Mongiovì, era stato gioco forza diminuito nella consistenza e nell’aspetto: più che dimezzato, a dire il vero, depauperato dell’immagine stessa dell’Eroe dei Due Mondi. Si presentava allo sguardo allibito del Generale come un magazzino rettangolare seminterrato. “E questo c… di roba sarebbe il nostro monumento?”, esclamò lapidariamente. I picciotti annuirono, sconfortati e increduli pur’essi.
Lo scoramento li aveva presi, quando sentirono un scalpiccio di cavallo che arrivava dalle parti del porto. Guardarono, e riconobbero il fiero Nino Bixio, sceso pure lui, quel fantastico mattino, dalla targhetta viaria che da Piazza Caprera va verso Salemi.
Con il più fido garibaldino in arrivo, la banda si rianimò. La frase storica stavolta fu: “Se molto è perduto, tanto resta ancora da fare!” Naturalmente fu il capo a pronunciarla, che chiese subito dopo un attimo di permesso per andare a fare i suoi bisogni dietro il monumento. Difatti, in ogni luogo che Garibaldi visitò, oltre che battagliare, dormire e mangiare, faceva quasi giornalmente i suoi bisogni. Per una comprensibile deferenza degli storici, sono stati ricordati i luoghi delle battaglie, delle mangiate e delle dormite, e mai quelli delle effettuazioni dei bisogni corporali, che pure avvennero con regolare frequenza. Se per una costipazione incurabile, Garibaldi non li avesse fatti, sarebbe morto nel giro di una settimana, e addio Unità d’Italia e tutto il resto.
Tornato da dietro il monumento – non monumento, Garibaldi ordinò: “Al Comune! Andiamo a prendere quello che c’è.” Un picciotto gli ricordò che era domenica, e il robusto cancello di ferro del Comune era chiuso. Un altro fece presente che, quando fu ai tempi dei Borboni, avevano trovato bei tornesi nella cassaforte, ora veniva ripetuto dal sindaco che non c’erano più soldi. “In piazza, allora!” ordinò il duce, e arrivarono presto di fronte alla Loggia dei Pisani. Fecero gruppo sulla scalinata della chiesa madre. Dal vecchio Cassaro, con provenienza da Piazza San Francesco, precisamente dall’Ospedale San Biagio, ormai dismesso, venne a piedi, con indosso la tipica armatura spagnola e spadone alla cintura, don Bernardino Grignani, fondatore dell’ospedale marsalese. Scuro in volto, rivolgendosi a Garibaldi come a suo pari, per la stirpe nobile del primo, per l’audacia guerriera del secondo, gli disse: “Peppino, andiamo a sostituire l’intitolazione di “Ospedale Paolo Borsellino” al nuovo ospedale di contrada Fiumara. Dovevano intitolarlo a me che donai nel ‘500 miei locali per fare l’ospedale. Questi farabutti ingrati!”
La logicità della richiesta di don Bernardino fu considerata esente da vizi da Garibaldi, che approvò seduta stante.
La mattina domenicale cominciava a far passeggiare la gente tra Cassaro e Loggia. Il gruppo dei garibaldini non disturbava, era disposto tra la scalinata dell’ultima porta a destra della chiesa, che resta sempre chiusa, e il piano della piazza. I marsalesi che passavano, e vedevano quell’eterogenea compagnia di signori, in vari e antichi vestimenti, e due cavalli, quello bianco di Garibaldi e quello nero di Bixio, pensarono a una processione in formazione che avrebbe dovuto prendere l’avvio, ma non ricordavano a quale ricorrenza si collegasse. Qualcuno pensò a una ripresa televisiva per fini di promozione culturale – turistica. Alche i carabinieri nella Gazzella, che avanzava lentamente in divieto di transito, pensarono la stessa cosa, e continuarono il loro servizio.
Dietro le vetrate del Circolo Lilybeo, che danno sulla piazza, l’avvocato Giliberti, dalla poltroncina dove era seduto, guardava senza molta attenzione il gruppo dei garibaldini con i cavalli. Sulla poltroncina vicino a lui il ragioniere Pisciotta, che era miope e sordo, chiese al vicino: “Cosa c’è là in fondo sul sagrato?”. “Forse la sceneggiata di un film”, rispose Giliberti. “Una minchiata?”, chiese di nuovo il sordo. “Sì, una minchiata, ragioniere”, chiuse il discorso l’avvocato.