di Leonardo Agate - Il Circolo fino a non molti anni fa veniva comunemente chiamato Circolo Nobili, perché da un secolo e più era il ritrovo riservato e privato dell’aristocrazia cittadina, vera o falsa.
I quarti di nobiltà erano a volte inquinati dal vino Marsala , che fece fare tanti soldi. I soci andavano al Circolo a passarci il tempo. C’era chi ci andava alla fine di una giornata di lavoro, lavoro degli altri intendo dire, perché lui si limitava ad andare in campagna a veder lavorare le sue terre. Tornando, era talmente stanco che ripeteva a tutti i conoscenti che lavorare stanca.
Al Circolo ci andavano, e questi giornate intere, quei nobili, o presunti tali, che avevano dato a gabella le proprietà, e quindi non avevano bisogno di andare a “lavorare”.
Sulle comode poltrone e divani del Circolo, che si faceva, e per le numerose sale? Si potevano leggere quasi tutti i giornali, che il maitre comprava ogni mattina. Si poteva dialogare con il vicino di poltrona. Si poteva passeggiare con le braccia dietro la schiena, in atteggiamento assorto e pensoso. Che cosa pensasse il conte Spanò, quando passeggiava, non l’ha saputo mai nessuno, essendo lui molto riservato. Solo il prof. Vinciguerra, emerito preside del Liceo, pensava di averlo capito, dai suoi sorrisi che si tramutavano all’improvviso in grinta. L’intelligente che aveva capito spiegava che quando il conte sorrideva pensava alla vecchia governante, al tempo di lei giovane e lui pure, sposato con donna Rachele, cittadina di antico lignaggio. Il conte, in quel tempo ormai lontano, portava con sé in campagna, per la preparazione della casa di campagna prima della villeggiatura, la serva, scopandola adeguatamente prima di passare a lei la scopa per pulire le stanze. E quando invece il conte passeggiava con il viso corrucciato? Sarebbe stato che pensava a quando, scoperto dalla moglie nella tresca, era dovuto scappare senza pantaloni per il vigneto, sotto gli occhi incuriositi dei suoi contadini. Un nobile che scappa in quelle condizioni, è un brutto ricordo per lui, anche se divenne un bel racconto per i suoi dipendenti, che tracimò per tutta la città.
Su quelle poltrone e divani si discuteva di tutto: politica, economia, costume, religione, etica ed estetica. E di donne, tanto per non perdere il vizio italico e particolarmente siciliano. Si approfondivano le problematiche dell’altra metà del mondo, in relazione alla contrapposta metà; dei diritti dell’una parte e dell’altra, e anche dei doveri. Argomento spesso toccato era la fisicità che ricopre la spiritualità femminile. Gli esperti erano tanti. In quel posto i pensatori erano abbondanti.
Un giorno che si ragionava sul fatto che una donna vale un’altra, perché tutte ce l’hanno allo stesso modo, il barone De Marini osservò che così ragionando Nina “la brutta”, cameriera del socio Princivalli, nota appunto per la sua bruttezza, valesse quanto quella gran gnocca di Marilyn Monroe, che era allora ancora viva. L’osservazione fu condivisa da tutti e il primo commentatore ebbe dubbi sulla sua affermazione, a dire il vero superficiale.
Poiché il discorso doveva essere concluso, essendosi fatta l’ora del pranzo, fu chiesto al prof. Pizzone, noto uomo di mondo e spadaccino, di dire la sua. Non si tirò indietro il maturo amateur, stabilendo con frase scultorea che “è vero che tutte ce l’hanno fatto allo stesso modo, ma non tutte la danno allo stesso modo”. Il consenso che ricevette fu unanime, sia per la ragionevolezza dell’asserzione, sia per la fonte di provenienza, notoriamente ben informata di questi fatti.
I dialoghi sarebbero continuati dopo l’interruzione del pranzo e della siesta.