Oggi parliamo di pasticceria. Michael Haneke è come il babà. O lo ami alla follia o ti fa impazzire d’odio. Vie di mezzo, anche a volerle trovare, non se ne possiedono. Vedi – nell’esempio – questo inizio di ultimo (capo)lavoro. Quelli di MH sono sempre (capo)lavori; poi arrivano ‘cose’ come “Il nastro bianco” che diventano pietre epocali di paragone, ma ovvio che risultino lampi neri rarissimi.
Come non collegare il docudramma della vita occidentale (una terribile apatìa famigliare ripresa con l’iphone e messa in rete senza battere ciglio; una telecamera di sorveglianza che immortala un ‘accidente di lavoro’), con il thriller d’anime che lo stesso regista aveva magistralmente diretto in “Caché”?
Tp24 ne fà un’altra delle sue e vi propone una primizia davvero problematica; si astengano dalla visione i diabetici del ‘cinema facilone’ e tutti quelli che soffrono di ipotensione visiva. Gli altri si godano il babà e, magari, scoprano o ri-scoprano uno dei registi più stimolanti/snervanti in circolazione.
Buona domenica, buon film ed al prossimo appuntamento con “Stalker”, la vostra guida fedele nel mondo delle luci e delle ombre!
Marco Bagarella
Dicono del film
Uno dopo l’altro, al tredicesimo film Haneke procede alla dissoluzione del dispositivo cinema usando il cinema, prassi di matrice wittgensteiniana, se vogliamo cercare padri nobili.
“ Ciò che non si può dire, non si deve soprattutto tacerlo, ma scriverlo” afferma il filosofo.
Ciò che non si può dire bisogna soprattutto filmarlo, dice Haneke, e il film si dipana dagli altri come l’estremità di un lungo nastro (bianco?) teso a dire sempre la stessa cosa in modi diversi.
Non importa come, uno smartphone può bastare, la giovane Eve (Fantine Harduin) tredicenne anaffettiva né più né meno del vecchio nonno in carrozzella (Trintignant), fa proprio questo, filma l’incipit del film col suo cellulare. Sarà lei a cliccare il tasto stop alla fine? Forse.
Segue la storia, o meglio, quel che resta di una storia dopo che la conflagrazione del senso l’ha fatta in mille pezzi. Noi possiamo, a mo’ di archeologi del linguaggio per immagini, ricomporne i frammenti, e dunque raccontare che qui si parla di una famiglia dell'alta borghesia che vive a Calais, ignara, apparentemente, di trovarsi fianco a fianco con quello che si può considerare l’ombelico dei centri d’accoglienza profughi in Europa. Oggi, ma anche ieri o domani, non c’è fuga nella Storia, forse però ci sarà un’ultima tappa, un happy end tanto ridicolo quanto inatteso e mortificante, se si pensa al grande impegno profuso per migliaia di anni dall’umanità a darsi parvenza di dignità e grandezza.E poi basta un clic.
E’ la banalizzazione della catastrofe, la fine della comunicazione, la defenestrazione di ogni tipo di linguaggio nella replica indefinita che ne desatura il senso.Quello che succede, i fatti, diventano vuoti accadimenti sui quali la mdp passa a volo d’uccello, “sorvola” in senso etimologico, e li svuota di carica emotiva. Scrivere diversamente la storia, o altrimenti non scriverla più, questo è il problema.
(Yume)
“Happy end” si apre e si chiude con delle riprese fatte con un telefono cellulare, possiamo leggervi l’inadeguatezza del regista rispetto al presente come ad una più profonda critica dell’immagine ad ogni costo, alla raffigurazione di una verità tascabile e superficiale. Con la stessa profondità dello sguardo possiamo confrontare cosa si riprende nelle due riprese e quale sia lo sgomento che genera la mancanza analitica dell’immagine in sé, discutibile per il regista già con il mezzo cinematografico, ancora peggio e infinitesimamente ridotto con un videotelefono. Tuttavia la distanza del mezzo gioca per Haneke qualche passaggio a vuoto.
La tentazione di inserire nella vicenda la questione più che mai attuale dell’immigrazione sembra una vera e propria forzatura che non riesce ad erodere la corteccia del racconto come vorrebbe. Le inquadrature che intaccano l’argomento appaiono poco collegate, se vogliamo potrebbero rappresentare l’ennesima critica all’incomprensione e alla cecità capitalista, ma in questo caso sembra più lo sforzo di arricchire un contesto già fin troppo ben delineato attraverso un problema che è tutt’altro che poco visibile o non considerato. Resta un’uscita di scena abbagliante e potente come nei migliori momenti del regista, la sequenza finale appare tanto inaspettata e naturale nel suo sviluppo che in qualche modo sembrerebbe davvero un atto definitivo del regista verso il cinema.
(Kurtisonic)
Il film in streaming gratuito
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