di Leonardo Agate - La Chiesa di San Pietro, a Marsala, ospiterà per ancora due giorni una mostra da non perdere, che ha per nome: “L’evoluzione del caravaggismo nell’arte contemporanea”.
Un amico un mese fa me ne aveva parlato, consigliandomi di andarla a vedere. Non lo feci perché lo dimenticai. Questo pomeriggio nella passeggiata al Cassaro, passato davanti alla Chiesa, ho visto che c’era la mostra e sono entrato. Acquistando il biglietto d’ingresso per cinque miseri euro, ho visto una ventina di opere, dipinte dal Seicento in poi fino a oggi, di artisti che hanno sentito l’influenza di Caravaggio, artista inimitabile ma seme di sempre nuove ispirazioni.
Purtroppo ho constatato che ero il solo visitatore in quell’ora di punta della passeggiata. I marsalesi strusciavano i piedi o battevano i tacchi sulle balate del Cassaro, indifferenti al richiamo dell’arte.
Ho ammirato tele del Seicento, del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento; forse qualcuna, credo quelle della marsalese Loredana Meo, di questi anni 2000. Mi sono davvero sentito immerso nell’atmosfera caravaggesca, ed è stato emozionante. Uscendo, ho chiesto all’organizzatore chi fosse la Meo, non sapendo che era marsalese e pure presente; così l’ho conosciuta: una donna che sa davvero usare i colori e i pennelli.
Un paio di anni fa, il pittore Vito Linares, purtroppo non più fra noi, mi invitò a una sua personale in quella Chiesa. Penso che la sua personale avesse per nome “Il rosso che avanza”, o qualcosa di simile. Nella presentazione, l’autore dei quadri spiegava che la sua fonte di ispirazione era Caravaggio. Preso atto di questo, finita la presentazione, guardai i quadri, e mentre procedevo lungo i pannelli espositivi mi ripetevo in testa, o forse anche mormoravo a mezza bocca: “Ma come fa Vito a riferirsi a Caravaggio, se questi quadri astrattisti ne sono agli antipodi?” Mah, la risposta ancora non la so dare. Si trattava di composizioni, non so se su tela o altro supporto, fatte con tecnica contemporanea che utilizza strumentazioni di grafica. Ognuno dei prodotti, forse una trentina o poco meno, era simile all’altro, tranne leggere variazioni del rosso, unico colore che a chiazze copriva i supporti. Nessuna opera, ma tutte erano simili o apparivano anche uguali, suscitava in me alcun sentimento di bellezza o di bruttezza particolare, che è la chiave dell’arte. Se un quadro non ti trasmette alcun sentimento, né di attrazione né di ripulsione, non è niente; è una semplice cosa come una pietra o un oggetto qualunque di produzione umana.
Pure, ricordo che allora ci furono molti entusiasti della tecnica nuova del “maestro” Linares. Feci della personale una stroncatura sui giornali, che troncò pure i buoni rapporti che con il “maestro” avevo avuto per mezzo secolo, essendo stati compagni di scuola alle Medie. Vito non sapeva usare la penna del critico d’arte; e pertanto chiese a un amico o amica, non ricordo chi fosse, di scrivere un articolo di critica al mio giudizio, nel quale sono stato preso per ignorante che non sa aprirsi all’evoluzione artistica; sarei uno che non capisce perché non ha la giusta apertura mentale. E va bene; sarà pure così; per me, però, quegli imbrattamenti di rosso sembravano macchie di colore senza senso.
Dell’episodio della personale di Vito Linares mi dispiace non tanto di essere stato preso per ignorante sprovveduto dal critico a lui favorevole, quanto la fine di un’amicizia che avrei voluto riallacciare se lui non fosse andato all’altro mondo. L’amicizia con lui per me aveva più valore della sua produzione artistica, che considero, soprattutto quella degli ultimi anni, di nessun valore.