Terza parte dell'inchiesta di Tp24.it sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D'Amelio.
Il costume da bagno, le chiavi, le sigarette, un’agenda marrone e… l’agenda rossa.
Era questo il contenuto che Paolo Borsellino mise nella sua borsa di cuoio, il 19 luglio 1992. Lo ricorda bene la figlia Lucia, che quella domenica mattina era con lui quando il giudice “ordinò il tavolo riponendo all'interno della borsa questi oggetti…”.
Portava sempre con sé la sua agenda rossa, nella quale appuntava fatti, dettagli e notizie riservate, oltre alle proprie riflessioni su ciò che stava accadendo nell’ultimo periodo della sua vita.
Aveva deciso che era arrivato “il momento di scrivere”, aspettando di essere convocato dal procuratore capo di Caltanissetta, per essere sentito sulla strage di Capaci.
Che invece non lo sentirà mai.
“Io presi Agnese Borsellino e chiesi specificatamente di questa agenda – racconta il maggiore Carmelo Canale, braccio destro del giudice al Pm Stefano Luciani - che fine avesse fatto, perché i ricordi erano a pochi giorni prima, che Borsellino faceva sul serio, non scherzava più e stava scrivendo su quell'agenda rossa. Quindi la mia preoccupazione di amico e poi di investigatore è di capire: dov'è l'agenda rossa? (…) Agenda rossa che a casa non c'era, le assicuro che non c'era, che l'abbiamo cercata tutti, non c'era 'sta agenda rossa”.
Quando il capo della Mobile, Arnaldo La Barbera, consegna ai familiari la borsa di cuoio, dentro c’è ancora tutto, l’agenda marrone e perfino il pacchetto di sigarette. Manca solo l’agenda rossa.
Una consegna strana, effettuata dallo stesso La Barbera, senza alcun verbale.
La testimonianza di Lucia Borsellino al processo è chiara: “… nell'aprire la borsa mi accorsi che, appunto, mancavano alcuni oggetti che ricordavo fossero presenti. Ricordo di avere visto in quella circostanza soltanto il costume, le chiavi di casa, il pacchetto di Dunhill e ricordo che ci fu consegnata anche l'agenda marrone. Mi lamentai subito della mancanza di quella rossa…”
E quando la figlia del giudice chiese che fine avesse fatto, le fu risposto che non era stata contemplata l’ipotesi che nella borsa potesse esserci un altro oggetto. “Per cui, al mio insistere – aggiunge Lucia – mi fu detto addirittura che deliravo”.
Anche Manfredi Borsellino, nella sua deposizione del 2015, sottolinea come La Barbera fosse infastidito: “ … Non sopportava questo insistere sull'esistenza dell'agenda, cioè voleva liquidare la cosa dicendo ‘Non è... mi state facendo perdere tempo su qualcosa che non ha nessuna importanza. Il contenuto della borsa è questo, prendetevelo così com'è, prendete per buono tutto quello che vi stiamo dando, perché nessuno ha fatto sparire niente’. Che poi si sentisse lui in colpa per qualche cosa, io non lo so…”.
L’impressione che il figlio del giudice ha del questore La Barbera è eloquente: “Cioè lui ha avuto... lui, sostanzialmente, non era venuto per acquisire informazioni, per avere dei colloqui investigativi, che in quel momento penso fosse il minimo dovere avere con la moglie e con i figli di Paolo Borsellino, cioè lui è venuto là semplicemente per liberarsi del... della borsa e del contenuto che... di cui riteneva di potersi liberare, cioè che non aveva rilevanza investigativa per lui e... e andarsene (…)”.
Non c’è dubbio però che l’agenda rossa fosse nella borsa. Ma era ancora in quella borsa che il capitano Giovanni Arcangioli portava via, allontanandosi dal luogo della strage, immortalato in quella famosa foto?
Il capitano Arcangioli quella borsa l’ha aperta: “C’ho guardato dentro, non mi ricordo di aver visto alcunché che potesse attirare l'attenzione. Ho invece un ricordo, perché.. di quello che c'era dentro, ed era un crest dei Carabinieri. Eh, il mio... la mia mente lì si è fermata, perché il giudice dentro la sua borsa teneva un crest dei Carabinieri.”
E quando il Pm Sergio Lari gli chiede se mentre guardava all’interno della borsa, vicino a lui c’era qualcun altro, Arcangioli risponde che non ha un ricordo nitido, ma gli sembra che “ci fosse anche il dottor Ayala” e specifica che rimane un "mi sembra", un'affermazione che non può fare sotto giuramento.
Il colonnello Marco Minicucci, suo superiore gerarchico, riporta invece di essere arrivato in via D’Amelio circa mezz’ora dopo lo scoppio dell’autobomba, recandosi con il magistrato Giuseppe Ayala a riconoscere i resti di Paolo Borsellino. Racconta che lo stesso Arcangioli gli aveva detto di aver preso la borsa proprio su disposizione di un magistrato: “…Non ricordo se il magistrato gli aveva detto di aprirla. Probabilmente l'apertura è una cosa che poteva essere anche...”.
Di una cosa è certo: “Che il magistrato gli disse di prenderla, questo mi ricordo che lui me lo disse”.
Ayala però esclude decisamente d’aver guardato dentro. La borsa sarebbe passata dalle sue mani per pochi attimi. Gliela passa una persona in borghese e lui la consegna ad un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosce. “… Questa borsa è transitata, attraverso il suo manico naturalmente, per pochissimo tempo nelle mie mani, perché ho avvertito… come dire, non avevo titolo per tenerla io questa borsa (…) E l’ho consegnata ad un ufficiale dei carabinieri.”
Rosario Farinella, caposcorta di Ayala, racconta invece che il magistrato (allora parlamentare) si era accorto che dentro la Croma c’era la borsa di Paolo Borsellino. Farinella, allora, dopo aver aiutato il vigile del fuoco a forzare la portiera, aveva consegnato la borsa, su indicazione dello stesso Ayala, “ad una persona – in abiti civili – conosciuta dal parlamentare”.
Chi riceveva la borsa, non era il capitano Arcangioli, “(la cui fotografia veniva mostrata al teste), ed era una persona – scrivono i giudici - (si ripete) conosciuta da Ayala”.
Quest’ultimo, secondo Farinella, avrebbe detto al consegnatario: “Questa è la borsa che abbiamo preso dalla macchina del dottore Borsellino”. “Lo stesso ci rassicurò – aggiunge il caposcorta – che si sarebbe occupato della cosa, per cui gli consegnai la borsa”.
Certo, dopo più di vent’anni, i ricordi possono essere confusi. In ogni caso, le dichiarazioni di Ayala e del suo caposcorta Farinella, convergono almeno su un punto: il destinatario della borsa non era Arcangioli.
Francesco Paolo Maggi, della Squadra Mobile di Palermo, che fu uno dei primi ad arrivare in via D’Amelio, circa dieci minuti dopo l’esplosione (come abbiamo raccontato qui), racconta di aver visto da subito delle persone dei servizi segreti, in giacca e cravatta, che “gironzolavano”. “Sì, perché un paio li conosco, di Roma. Io ho lavorato sette anni a Roma”.
Il Pm Nico Gozzo allora gli chiede: “E a questo punto la invito a fare i nomi di queste persone, se li riconosce”.
Maggi però risponde così: “E non li conosco, conosco solo di… di faccia, è gente questa che… manco ti dà confidenza”.
Presenze dei Servizi, che Maggi all’epoca non riferisce a nessuno. Una cosa che “si è sempre tenuta dentro”.
“Mi scusi se le faccio questa domanda – continua il dottor Gozzo - ma evidentemente essendo passati vent’anni io devo indagare anche sul perché lei queste cose le dica oggi. Lei aveva timore a dire questo fatto?”
Maggi: “No, nessun timore, solo che (…) al tempo non… non pensavo che fosse rilevante questa cosa, trattandosi di poliziotti e carabinieri”
P.M. Dottor Gozzo: “E perché oggi pensa che sia rilevante, invece?”
Maggi: “E non lo so, perché ci sono molti punti oscuri. ‘Sta borsa chi l’ha trovata? Ma quante borse c’erano?”
P.M. Dottor Gozzo: “No, va beh, una ce n’era. Quante ce n’erano?”
Maggi: “Cioè non… veramente, alle volte dico: ma è successo veramente?Cioè veramente, non… Mi sento un po’ frastornato da ‘sta storia”.
Una storia che da quel 19 luglio 1992 frastorna l’Italia intera. Una storia fatta di zone d’ombra, ambiguità, testimonianze contraddittorie, anomalie investigative ed inquietanti presenze.
Fatta anche di “gente di Roma”, la cui presenza in via D’Amelio a pochi minuti dalla strage, spunta fuori solo vent’anni dopo.
Dov’è l’agenda rossa che, come scrivono i giudici, si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste?
Perché Arnaldo La Barbera, inizialmente dice alla moglie di Borsellino Agnese Piraino Leto, che la borsa del magistrato è andata distrutta nella deflagrazione? Eppure, come si legge nella sentenza, “il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992”.
Oggi, il depistaggio viene messo nero su bianco in una sentenza di indubbio valore storico.
Che fine abbia fatto l’agenda rossa però, rimane ancora un mistero.
Egidio Morici