Questa rubrica, che finora ha cercato di fare una breve ricognizione delle tracce di poesia contemporanea in Sicilia, vuole prendere il largo: fare un giro nel Mediterraneo, visitare Alessandria d'Egitto, arrivare ad Atene, risalire verso Istanbul. E ricordare i versi e raccontare le storie che hanno animato quelle coste a noi così prossime eppure così poco conosciute.
di Marco Marino
La prima storia è legata ad un quaderno dentro una teca di vetro (lo potete vedere nella foto quassù). La teca si trova ad Atene, all'ultimo piano del Museo Benaki, quello di via Koumbari, di cui è proprio l'ultima teca. È piena di oggetti, la teca, ma questi non li riuscite a vedere: ci sono quadri, lettere, fotografie, effetti personali di un uomo che ha fatto la Storia – stavolta, forse, la maiuscola è d'obbligo – della Grecia moderna, e si chiamava Elefthérios Venizélos. Ma non la tiriamo troppo per le lunghe, è del quaderno che dobbiamo parlare. E della teca che dietro i suoi vetri ospita fotografie e quadri che ricordano la catastrofe microasiatica.
Queste due parole, catastrofe microasiatica, potrebbero essere tradotte così: dopo che Kemal Atatürk debellò l'esercito greco in Turchia, siamo nel 1922, milioni di greci dell'Asia Minore si videro costretti a fuggire, lasciare tutto ciò che avevano, la casa come anche la storia millenaria che li ancorava a quei luoghi, e andare per mare verso l'Ellade. Da un giorno all'altro da cittadini divennero profughi. Da rispettabili uomini e donne si trasformarono in figure senza più un passato, soccorsi in baraccopoli costruite in fretta. Era vero, erano rimasti senza più un passato, sì, ma non certo senza memoria, perché la memoria è un'ombra, che ti viene dietro, che non ti permette di vedere altro luogo, altro mare, perché davanti ai tuoi occhi, come se fosse uno stigma, interminabili scorrono le immagini del fuoco di Smirne, delle città assediate.
Al di là dei vetri, fra gli oggetti che nella foto non riuscite a vedere, c'è tutto questo. E c'è anche quel quaderno: di chi è? Cosa c'è scritto? Per quale ragione è lì? Quel quaderno e soprattutto quell'ordinatissima grafia sono di Constantinos Kavafis, un uomo che, benché abbia avuto una data di nascita e una di morte (29 aprile, 1863-1933), sembra non sia esistito «al di fuori delle sue poesie», e che nel 1910 rifinì i versi che voi vedete lì, in foto, vergati nel suo greco, sono quelli della poesia «La città».
Delle ragioni per cui quel quaderno si trovi lì e sia aperto proprio alla pagina de «La città» non ne parleremo assieme, ma ognuno di voi potrà leggere i versi di Kavafis e intimamente intuire il legame fra quel quaderno, la poesia che mostra e l'ultima teca dell'ultimo piano del Museo Benaki, ad Atene.
La traduzione è di Margherita Dalmati e Nelo Risi ed è ripresa dal volume «Settantacinque poesie» (Torino, Einaudi, 1992):
La città
Hai detto: «Per altre terre andrò per altro mare.
Altra città, più amabile di questa, dove
ogni mio sforzo è votato al fallimento
dove il mio cuore come un morto sta sepolto
ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?
Dei lunghi anni, se mi guardo intorno,
della mia vita consumata qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina».
Non troverai altro luogo non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro. Andrai vagando
per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.
Imbiancherai in queste stesse case. Sempre
farai capo a questa città. Altrove, non sperare,
non c'è nave non c'è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
tu l'hai sciupata su tutta la terra.