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15/11/2018 19:29:00

D'Alì ha perso una querela contro Enrico Deaglio

 L'ex senatore di Forza Italia, Tonino D'Alì, ha perso la querela per diffamazione che aveva intentato contro il giornalista e scrittore Enrico Deaglio per un suo articolo sul Venerdì di Repubblica. In quell'articolo c'era una dichiarazione di Teresa Principato, magistrato, che definiva D'Alì protettore di Messina Denaro:_ “Penso che D’Alì sia tra le protezioni di Messina Denaro, ma non lo metterei come unica. Si farebbe un errore a considerarla l’unica”. Ecco un estratto del lungo articolo, di ben tre anni fa:

Il barone Antonio D’Alì, 64 anni, possidente e banchiere, nel 1994 è stato uno dei fondatori di Forza Italia, eletto da allora incessantemente in Parlamento, ed è stato persino sottosegretario al ministero dell’Interno dal 2001 al 2006, ovviamente con Berlusconi presidente. Il processo sarà anche un’occasione per sapere se il senatore, dal suo alto scranno, si sia adoperato per catturare Matteo, o per non farlo catturare.

 

La famiglia D’Alì è presente a Trapani dal secolo sedicesimo e domina la città dal suo imponente palazzo di tufo. Proprietaria di feudi sterminati e delle famose saline, indiscussa protagonista economica e culturale della Sicilia occidentale. Un D’Alì fondò la Banca Sicula, prima banca privata dell’isola, addirittura nel 1883. La famiglia poi, per tacitare le pretese dei braccianti, affidò il suo latifondo alla solida mafia della Valle del Belice. Uno di questi mafiosi, Francesco Messina Denaro, don Ciccio, ottenne da loro parecchia terra e di fatto l’alter ego del barone; posizione che gli permise di diventare il capo della mafia del trapanese.

 

Negli anni Settanta si scoprì che avere la terra e avere una banca erano un bel prerequisito per sistemare in loco una raffineria di eroina, che infatti sorse sulle colline di Alcamo: l’unica in tutta Europa. La Banca Sicula (controllata dalla P2 di Gelli) esplose con i profitti da eroina e giunse ad avere sessanta sportelli. Nel 1988 aumentò il suo capitale di 30 miliardi di lire, prima di confluire nella Comit nel 1991 e infine in Banca Intesa.

 

Il patriarca don Ciccio, formalmente latitante, morì di infarto nel suo letto. Era il 30 novembre 1998; sopra il pigiama qualcuno gli mise un vestito scuro e ai piedi le scarpe lucide e la salma venne depositata sotto un ulivo alle porte di Castelvetrano. Qui – teatralmente – la moglie lo coprì con una pelliccia di astrakan e gli mise due santini nella tasca della giacca. Il vescovo di Trapani mandò subito un prete ad assicurare che su don Ciccio solo Dio poteva giudicare. Il patriarca lasciava due figli. Salvatore, discreto dirigente della Banca Sicula, era stato appena condannato per mafia. Il secondo, Matteo, è la primula rossa di cui oggi si parla come dell’ultimo capo di Cosa Nostra.

La provincia di Trapani (28 comuni, 170 mila famiglie) è davvero un luogo strano. Mafiosissimo, da sempre massonico, quasi sempre impenetrabile. Basti dire che l’attuale sindaco di Trapani è un generale in pensione dai servizi segreti, convinto che la mafia non esista. Qui le cose si vengono a sapere, quando si vengono a sapere, con circa mezzo secolo di ritardo.

 

Un esempio sono le tremila pagine di motivazione della sentenza che condanna all’ergastolo Vincenzo Virga, già capomafia di Trapani e il suo killer Vito Mazzara per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, nell’autunno del 1988. A 27 anni di distanza, si scopre che a dare l’ordine di uccidere quel pericoloso ficcanaso fu, nella quiete pastorale del latifondo D’Alì, proprio don Ciccio Messina Denaro e che quel segreto venne coperto da carabinieri, servizi segreti, magistrati che si adoperarono molto per depistare le indagini. Il tutto, raccontano quegli atti, avvenne in un contesto politico inquietante.

Don Ciccio Messina Denaro si era alleato con i corleonesi, da cui guerra, bombe e stragi. La mafia trapanese era moderna e tra i suoi tanti affari, era in società con le nuove televisioni della Fininvest, al punto che Virga, il capomafia di Trapani, fungeva da «recupero crediti» per il capo di Publitalia Marcello Dell’Utri. Quando la Fininvest entrò in politica, fu il boss Virga a fondare Forza Italia a Trapani e a scegliere come candidato il barone Antonio jr. D’Alì, che conquistò – a mani basse – il collegio senatoriale, nel 1994.

 

Pochi anni dopo D’Alì si sistemò al Viminale e la cosa – erano tempi di berlusconismo trionfante e di opinione pubblica debole – passò praticamente inosservata. Unico squarcio, nel 2009, una tanto clamorosa quanto poco conosciuta intervista della giornalista Sandra Amurri a Maria Antonietta Aula, moglie divorziata del senatore-sottosegretario Antonio D’Alì.

Vi si narrava del piccolo MMD tenuto sulle ginocchia, del patriarca don Ciccio, di lussuosi regali di nozze, delle affettuosità che legavano le due famiglie. E anche di un arrivo, nel favoloso palazzo di Trapani, di Silvio Berlusconi, nel 1996, preceduto da 7 bauli di indumenti e profumi e con tanto cerone addosso da distruggere le vecchie federe del secolare palazzo.

 

In tale contesto, la latitanza e la crescita di potere di MMD furono facili. Sotto il governo del barone D’Alì, un prefetto coraggioso, Fulvio Sodano, venne brutalmente sostituito; un valente commissario di polizia, Giuseppe Linares, che MMD l’avrebbe preso facilmente, venne messo in condizioni di non nuocere e infine trasferito. Un altro poliziotto, il capo della squadra mobile Calogero Germanà, addirittura scampato a una mitragliata di kalashnikov di MMD, venne mandato via dalla Sicilia. Era lo stesso poliziotto che aveva denunciato il riciclaggio di denaro mafioso nella Banca Sicula.