Matteo Salvini (incredibile caso di omonimia!) era un giovane padano di 22 anni. Abitava coi genitori e la sorella diciottenne in una villetta in provincia di Lodi, era un tipo tranquillo, assennato e studioso, e si stava laureando con ottimi voti in Scienze informatiche. Il suo avvenire era quasi assicurato.
Ma nel marzo del 2026 scoppiò la Terza guerra mondiale. L'Italia, sciaguratamente al centro dello scacchiere militare, fu devastata dai combattimenti fra le forze occidentali del Patto Scellerato e quelle orientali dell'Alleanza Criminale. La provincia di Lodi divenne terra bruciata. I Salvini misero in salvo la pelle in un rifugio sotterraneo, ma la loro villetta fu ridotta in cenere da un missile targato Putin. Persero tutto, e dovettero affrontare i patimenti della miseria e della fame.
Alla fine di quell'anno gli Stati belligeranti si accordarono per una tregua di Natale. In dieci mesi di guerra erano già morte nel mondo sedici milioni di persone, la maggior parte civili. Altri milioni erano i feriti e i mutilati. I Salvini approfittarono di quella tregua per abbandonare il rifugio e unirsi a una carovana di profughi che si era incamminata verso ovest, nel disperato tentativo di raggiungere il Portogallo. Lisbona era infatti l'unica capitale europea che aveva dichiarato la neutralità nel conflitto, e tra Fatima e Coimbra si era formato il più grande campo di accoglienza profughi del mondo. (La Svizzera aveva eretto già da tempo altissime muraglie sorvegliate da nidi di mitragliatrici lungo tutti i suoi confini, e prendere la via di Lugano sarebbe stata un'inutile follia).
Ma, in pieno inverno, anche l'attraversamento dei Pirenei fu un tragico azzardo. La carovana, che lungo il percorso era divenuta un'immensa fiumana di oltre cinquantamila persone, giunse in vista del Passo di Roncisvalle già stremata e massacrata da ogni tipo di sofferenze, fame, morti e malattie. Proprio sul Passo i profughi furono accerchiati da un contingente ispano-francese e rinchiusi a forza in un immenso campo recintato: un luogo di tremende sofferenze, torture e indicibili orrori. Qui, durante la lunga detenzione, la madre e la sorella di Matteo furono ripetutamente violentate dai loro aguzzini. Il padre morì di stenti dopo due settimane di prigionia.
Lo stesso Matteo rischiò di essere sodomizzato da una guardia francese (un certo Emmanuel Macron... altro incredibile caso di omonimia!) ma si salvò lanciandosi da una finestra della lurida baracca in cui alloggiava. Poi, arrancando come un folle tra i boschi nella neve alta più di un metro, riuscì miracolosamente a raggiungere una baita, dove un gruppo di fuggiaschi italiani, sloveni e austriaci stava sbranando la carne cruda di una volpe affetta dalla rabbia. Qualche grammo di quell'orrido pasto finì nello stomaco esausto di Matteo, che in quel modo ebbe salva di nuovo la vita, ma divenne rabbioso.
Eppure, il peggio per Salvini doveva ancora venire. Cinquantasei giorni di cammino ci vollero per attraversare il nord della Spagna. Altra fame, freddo, fango, e sofferenze inimmaginabili. Ed ecco finalmente la frontiera del Portogallo. Ma qui, che orribile sorpresa! I soldati portoghesi stavano erigendo una barriera di pali metallici alta una decina di metri, protetta a sua volta da una siepe di filo spinato profonda sei metri. Al di là della barriera una folla di portoghesi urlava slogan minacciosi e innalzava cartelli ostili. Lo slogan dominante era: “Basta profughi, la pacchia è finita”. Altri dicevano: “Basta accoglienza”, “Basta pasti e cure mediche gratis”, “Basta tutto”. E molti cartelli recavano le scritte: “Prima i portoghesi”, e: “Tornate a casa vostra”.
“Ma quale casa?”, pensò Matteo, che aveva ancora negli occhi la visione della sua villetta incenerita dal missile di Putin. E con altri disperati tentò allora di violare le barriere. Furono tutti ricacciati e feriti da una pioggia micidiale di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. La lunga e terrificante odissea dei disperati non era dunque servita a niente. Benché ferito e ancora rabbioso, Matteo fu tra i fortunati che riuscirono a sopravvivere in un campo di baracche privo di ogni servizio fino alla fine della guerra.
Ma del seguito della sua vita si sa ben poco. Pare che nella fase più drammatica del dopoguerra si fosse arrangiato spacciando droga e commettendo piccoli furti nei più sordidi suburbi di Barcellona. Per questo le autorità catalane lo arrestarono e lo rispedirono in Italia imbarcandolo su un traghetto per Genova. Poi, fu inghiottito dalle nebbie della pianura padana, e di lui non si seppe davvero più nulla.
Sélinos