di Marco Marino
Siamo alla quarta edizione di Jingle Books, festa del libro e delle arti, che s'è tenuta a villa Filippina dal 14 al 16 dicembre, e ritrovandoci con Salvatore Ferlita - uno dei maggiori critici militanti dell'isola, da quest'anno è presidente del premio Sciascia-Racalmare e da qualche giorno vincitore del premio Luigi Pirandello - abbiamo iniziato a conversare con lui intorno alla sua nuova raccolta di saggi, Il libro è una strana trottola (il Palindromo, 2018).
Quando leggo un tuo nuovo lavoro, ti immagino sempre come un archeologo della contemporaneità che scava nei fondali della letteratura siciliana portandone alla luce il canone oscuro (ne dai esempio in un saggio di questa ultima raccolta: «Il canone iniquo e il demone dell’insuccesso»): se, per assurdo, considerassimo la letteratura italiana senza la letteratura siciliana, quanto considerevole sarebbe la perdita?
Ogni tanto occorre ragionare per assurdo, ipotizzare l’inammissibile: aiuta a capire meglio. In questo caso il pericolo della perdita, l’horror vacui in qualche modo possono far prendere coscienza dell’entità di un patrimonio ricchissimo, di uno straordinario giacimento aurifero. Perché se metti il segno meno davanti a quello che si possiede, scattano meccanismi di difesa, si innescano gli ingranaggi di autoprotezione. Fin quando il tuo capitale è bello e sicuro, te ne stai tranquillo. Ma se per caso una minaccia dovesse lambirlo, allora è lì che ti rendi conto dell’entità della possibile sottrazione. Scusami per questo preambolo: dunque, se dovessimo immaginare il panorama della letteratura italiana facendo a meno del paesaggio isolano, dello scenario siciliano, la nostra specola sarebbe assai angusta. È come se dal capolavoro dantesco strappassimo il canto di Paolo e Francesca o quello di Ulisse e Diomede. Insomma, si consumerebbe una privazione devastante. Tra la fine dell’Ottocento e il secolo successivo (per limitarmi al periodo che conosco meglio) la scrittura immaginativa ha trovato un serbatoio inesauribile nelle contrade isolane, un inchiostro “antipatico”, consentimi il gioco di parole, l’inchiostro dei nostri scrittori è quasi sempre corrosivo, al vetriolo: una letteratura ad esempio che ha mostrato un sembiante pessimistico riguardo alle attese e alle speranze legate all’unità dello Stivale. A petto dell’entusiasmo degli scrittori del Nord (Manzoni in prima fila), gli autori del Sud, i siciliani in special modo, si sono espressi assai dubitando sugli effetti benefici di tale processo, preconizzando la stagione delle malversazioni, dei brogli. C’è stato sempre un rapporto antagonistico tra i siciliani e la Storia, che ai loro occhi non è mai stata maestra di vita: a questo proposito Sciascia è stato il più grande di tutti. Tutto questo grazie all’impasto ideologico che in Sicilia si è creato, fatto di sensismo, materialismo, scetticismo, predisposizione al comico, al grottesco e al caricaturale. La letteratura siciliana ha sempre avuto una forte connotazione politica, connotazione scorretta per intenderci. Per non dire del rovello stilistico che l’ha attraversata, con Verga vessillifero: egli dà avvio alla sperimentazione letteraria mettendo a punto una pronuncia nuova, una sorta di dialetto dell’anima. Non è un caso che Filippo Tommaso Marinetti spedisse le sue opere allo scrittore verista con dediche e riguardi a tutta prima spiazzanti. Pensiamo pure al barocco, inteso non come poetica di un secolo preciso ma come una sorta di costante, di marchio metastorico: Brancati, Sciascia (la sua anima nera), Consolo, Bufalino (barocco che si apre al liberty mortuario). Ma c’è di più: se proviamo a scavare sotto il solito strato letterario, vengono fuori nomi sorprendenti e inauditi. Quelli di Angelo Fiore, Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto; ma si può scavare ancora più a fondo: Antonio Russello, Mino Blunda, Salvatore Fiume, Ugo Attardi, Fortunato Pasqualino, Giuseppe Lo Presti. E via di seguito: il dispiegamento di forze è davvero impressionante, se si dovesse far a meno dei siciliani la letteratura nazionale si impoverirebbe a dismisura.
E mi viene da aggiungere: di per sé, staccata dal contesto nazionale, la letteratura siciliana ha un suo carattere autonomo, «continentale»?
In qualche modo sì: possiamo considerare la Sicilia come un continente a sé stante, una sorta di Irlanda del Sud, anche per le spinte autonomistiche che l’hanno sempre attraversata. C’è dunque una specificità (giustificata anche dalla posizione geografica della Sicilia, come ha spiegato Sciascia nel saggio che apre la “Corda pazza”) che rende le carte letterarie isolane una sorta di arcipelago divaricato e affascinante.
L'Istituto Censis ha presentato il 52esimo rapporto sulla situazione sociale del paese e ci ha mostrato un'Italia sempre più chiusa, incattivita, rancorosa. Pensi ci sia un legame fra questo abbrutimento e i numeri della lettura che ci descrivono un'Italia che legge sempre di meno?
Mi viene subito da stabilirlo: è da un bel po’ che si assiste a una specie di deriva antropologica. Siamo sempre più cattivi, rancorosi, prepotenti, maleducati. Ne consegue che i rapporti con gli altri peggiorano, gli equilibri si incrinano. Tutto questo accade anche perché si legge meno? Certo, la lettura è un’esperienza straordinaria che ci consente di fare esperienza dell’altro. Che fa da ponte tra la noi e gli stranieri, i diversi. Che ci costringe a variare punto di vista, a cambiare opinione. Leggere meno significa abbrutirsi di più: chi legge oltretutto sa che il mondo in cui vive non è il migliore dei mondi possibili, chi legge comprende bene quanto gli altri possano arricchirti con la loro presenza, con il loro sguardo.
Nella sua “Lettera a un giovane che spera e teme di diventare un critico” Alfonso Berardinelli scrive che per diventare un buon critico militante «bisogna essere capaci di ammirazione»: per la composizione di «Il libro è una strana trottola» a quali autori rivolgi la tua ammirazione e quindi forse anche il tentativo di emulazione?
Sono diversi gli autori che mi hanno assistito, quelli che da tempo frequento e che continuano ad arricchirmi. Non ho mai smesso di ammirare Luigi Baldacci, ad esempio, per citare uno dei più grandi critici militanti del secondo Novecento. Ma assieme a lui Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, entrambi compulsati in quanto saggisti sempre attenti, reattivi, in grado di cogliere aspetti legati all’uso del linguaggio ad esempio o di preconizzare gli scenari futuri legati al rapporto tra il cittadino e il potere. L’ammirazione implica lo stupore, la stima, la meraviglia, suscitati anche dalla temperatura stilistica degli autori preferiti.
Ti chiedo un ultimo consiglio letterario: siamo a Jingle Books, un libro da mettere sotto l'albero di Natale?
Due libri: quello di Nino Vetri, pubblicato per le edizioni del Palindromo. Si intitola “Suite per quarti di vacca”: a tratti risulta irresistibile per le tirate allo sberleffo di cui solo Vetri è capace, a tratti caustico e irriverente per il modo in cui il cosiddetto mondo culturale palermitano viene rappresentato e capovolto. Si tratta di un romanzo che fa i conti con l’ispirazione, il genio incompreso, l’originalità stravagante, tutti quanti ingredienti di una ricetta originalissima. L’altro è il romanzo di Gaetano Savatteri, pubblicato da Sellerio: “Il delitto di Kolymbetra”, un giallo che vira dalle parti del comico, facendo leva su alcuni luoghi comuni isolani, che riguardano l’eccesso di identità dei siciliani; un’ottima prova narrativa.